L’Europa affronta la sfida del nuovo ampliamento. Ma non ha definito la rotta
Hanno chiesto da tempo di aderire all’Unione Europea quasi tutti i Paesi dei Balcani occidentali: Albania, Serbia, Montenegro,Macedonia del Nord. L’Unione ha già
riconosciuto loro lo status di Paese candidato:
è l’atto formale dell’accettazione della
domanda di adesione. I negoziati sono in
corso con Serbia e Montenegro, ma non con
Albania e Macedonia del Nord a causa
dell’opposizione della Bulgaria. Hanno
richiesto l’adesione più recentemente anche
alcuni Paesi dell’Europa Orientale in passato
facenti parte della ex Unione Sovietica:
Ucraina, Georgia, Repubblica di Moldova. La
reazione di alcuni Paesi membri è stata a
lungo riservata. Ma “maiora premunt”
Del resto rimane incerto l’orizzonte
temporale per l’adesione di tutti i Paesi in
questione: sia dei Balcani Occidentali che
dell’Europa Orientale. E’ dubbio che loro
condizioni giuridiche, istituzionali, politiche,
economiche possano maturare in tempi
compatibili, da un lato, con le loro aspettative
e, dall’altro, con la loro partecipazione senza
gravi tensioni a sistemi economici di
consolidato stampo liberale, a istituzioni
provatamente democratiche e a sofisticate
procedure come quelle in vigore nell’Unione
Europea. L’esperienza dell’ampliamento nei
primi anni 2000 ai Paesi ex-comunisti
dell’Europa Centrale è stata istruttiva e non è
da ripetere. I danni provocati alla funzionalità
e credibilità dell’Unione hanno dimostrato
che l’adesione di alcuni di quei Paesi è stata
prematura: è stata decisa nel 2003, molti anni
prima che entrasse in vigore il trattato di
riforma firmato a Lisbona nel 2007. Il trattato
era stato concepito proprio per consentire un
ampliamento senza traumi a numerosi nuovi
membri portatori di tradizioni civili e
politiche così diverse da quelle dei precedenti
componenti dell’Unione. Nutro inoltre delle
riserve sulla valutazione data a suo tempo in
sede politica alla verifica delle condizioni
richieste per l’accoglimento della domanda di adesione (come dimostra il caso della Polonia
per lo stato di diritto).
I drammatici avvenimenti in Ucraina
hanno convinto la Commissione e ora anche il
Consiglio Europeo a ritenere prioritario il
segnale politico da dare a Kiev, e a Mosca. Il
Consiglio Europeo ha così deciso, nella
sessione del 23 e 24 giugno, di concedere lo
status di paese candidato all’Ucraina e alla
Repubblica di Moldova. Contestualmente la
prospettiva di Paese candidato è stata – per il
momento – solo promessa anche alla Georgia
e alla Bosnia-Erzegovina. Sono ancora in
corso infatti le procedure per verificare il
rispetto dei parametri – economici, giuridici e
politici – decisi a Copenaghen nel 1993 per
ottenere lo status di Paese candidato: capacità
dell’economia di funzionare correttamente in
un libero mercato integrato; esistenza dello
stato di diritto (essenzialmente l’indipendenza
della magistratura); osservanza delle regole
democratiche e tutela dei diritti umani e delle
minoranze.
Sono convinto che la decisione del
Consiglio Europeo sia stata saggia e
comunque dovuta. Il Consiglio Europeo mi è
sembrato peraltro consapevole della
contraddizione insita nel prendere due
decisioni apparentemente inconciliabili:
ulteriore ampliamento a Paesi ancora lontani
dai parametri richiesti; e mantenimento
dell’indispensabile unità intorno ai valori
fondanti dell’integrazione europea. Nel
tentativo di trovare un punto di equilibrio tra
queste due scelte il Consiglio Europeo ha
accolto la proposta presentata da Macron di
creare una Comunità Politica Europea, della
quale farebbero parte sia gli attuali che i futuri
Paesi membri. L’obiettivo è offrire una
“piattaforma di coordinamento politico per
tutti i Paesi del continente” volta a
promuovere il “dialogo politico e la
cooperazione per affrontare questioni di
interesse comune in modo di rafforzare la
sicurezza, la stabilità e la prosperità del continente europeo”. Tale quadro non
sostituirà “l’ampliamento e rispetterà
pienamente l’autonomia decisionale
dell’Unione Europea”.
L’idea di creare una associazione di Stati
intorno all’Unione, come sala di attesa per far
maturare nei Paesi candidati le condizioni per
una adesione piena, non è nuova. Fu avanzata
nei primi anni ’90, con contenuti non solo
politici ma anche economici, da alcune menti
lungimiranti, quando si pose il problema del
primo ampliamento a Est. Allora non fu
accolta. Nella situazione attuale la soluzione
recepita dal Consiglio Europeo appare abile,
ma rimane solo di facciata se non viene
accompagnata da iniziative volte ad
approfondire l’integrazione tra gli attuali
Paesi Membri e a rafforzare l’efficacia
dell’azione dell’Unione. Di tali iniziative non
vi è traccia nelle conclusioni del Consiglio
Europeo. La soluzione adottata consente
all’Unione Europea di prendere tempo:
sempre che i Paesi che chiedono l’adesione
siano disponibili ad accettarla; e che non si
trasformi in un ulteriore elemento di
contestazioni e tensioni, in particolare nella
complessa fase negoziale di concezione e
definizione. Non affronta comunque il
problema di fondo in questo momento
cruciale per il futuro del progetto avviato 70
anni fa dai Padri Fondatori: quale destino
intendono proporre all’Unione Europea gli
europei di oggi?
Alla vigilia del Consiglio Europeo mi era
sembrato infatti fosse doveroso per i suoi
componenti offrire ai propri cittadini qualche
prospettiva in merito agli sviluppi
costituzionali dell’Unione. Ma nelle
conclusioni relative ai seguiti da dare alla
Conferenza sul futuro dell’Europa non ve ne è
alcun cenno. Il Consiglio Europeo si è
limitato a prendere atto delle proposte
contenute nella relazione presentata dai tre
copresidenti della Conferenza. Né vi è cenno
alla richiesta di molti europei e del
Parlamento Europeo di portare l’Unione a più
elevati livelli di integrazione per promuoverne
una evoluzione graduale auspicabilmente
verso un orizzonte federale. La
“reinvenzione” della Comunità Politica
Europea – non inserita in un progetto più organico di riforma – nasconde, a mio avviso,
la mancanza di visione e di capacità reattiva e
innovativa dell’Unione Europea su questioni
strategiche essenziali per il suo futuro e per la
sua stessa sopravvivenza: la mia è una
constatazione purtroppo fin troppo ovvia, in
una Unione composta di 27 membri ormai
così eterogenei e divisi. Concordo pertanto
col commento di Adriana Cerretelli (Il Sole
24 Ore del 25 giugno), la quale ritiene che
questa scelta, pur “seducente e obbligata”,
possa tradursi nella “creazione di una piccola
ONU, senza il peso né il nerbo
dell’originale”, con la conseguenza di far
scivolare gradualmente l’Unione “verso una
irrilevanza senza ritorno”. Mentre “la sua
proiezione geopolitica deve necessariamente
passare per una auto-riforma e un salto
integrativo radicale”.
Eppure la richiesta di progressi verso una
Europa federale è stata recentemente
condivisa dai leader di alcuni Paesi membri i
quali si sono detti disposti – in dichiarazioni
pubbliche fatte nei mesi scorsi – a promuovere
la rinuncia all’unanimità per le politiche più
rilevanti ai fini di dare una voce unitaria e
credibile all’Europa nel mondo, come la
politica estera e di sicurezza; così come per la
politica fiscale, la cui armonizzazione a
livello europeo è fondamentale per il
funzionamento del mercato interno. Si
tratterebbe di un passo decisivo, che
segnerebbe il salto di qualità nel Consiglio da
un sistema ancora sostanzialmente
confederale a uno federale. Alcuni di questi
leader hanno anche chiesto di completare
l’unione monetaria mediante l’unione
economica, di bilancio e della fiscalità, al fine
di rafforzare la solidità economica
dell’Europa. Mi sarei atteso quindi da questi
leader qualche considerazione “a caldo” a
commento delle conclusioni del Consiglio
Europeo, in coerenza con le dichiarazioni
espresse in precedenza. Ma non ne ho
registrate, almeno finora. Provo a farne
qualcuna io.
C’è da attendersi che, anche se il Consiglio
convocasse una conferenza intergovernativa
per la riforma dei trattati, come ha chiesto il
Parlamento Europeo (è una decisione di
procedura che il Consiglio può prendere a maggioranza semplice), diversi Paesi Membri
si opporrebbero, nel corso dei negoziati della
conferenza, a riforme anche non impegnative
in senso federale, per le quali occorre
comunque l’unanimità: tredici Paesi hanno
già anticipato questa posizione. I Paesi
desiderosi di partecipare a una integrazione
più avanzata potrebbero istituire allora tra di
loro una “cooperazione rafforzata” retta da
regole specifiche (è sostanzialmente il caso
dell’EURO) per la politica estera e di
sicurezza e per la fiscalità, nelle quali la
regola è l’unanimità; e eventualmente anche
per altre materie che possono essere decise a
maggioranza ma che continuano a essere
frenate da un gruppo di Paesi costituenti una “
minoranza di bocco “. Non è da escludere
tuttavia che i Paesi contrari al rafforzamento
della struttura federale dell’Unione in materia
di politica estera blocchino la decisione del
Consiglio volta ad autorizzare una
cooperazione rafforzata in questa materia. Si
tratta infatti di una decisione che, pur essendo
di procedura, richiede l’unanimità, trattandosi
di politica estera; mentre per decidere la
costituzione di una cooperazione rafforzata in
materia di politica fiscale vale la regola di
procedura del voto a maggioranza qualificata
prevista per le cooperazioni rafforzate in tutte
le materie che non siano la politica estera.
L’abbandono dell’unanimità da parte dei
Paesi partecipanti a una cooperazione
rafforzata per le decisioni operative di quest’ultima è tra l’altro una condizione
indispensabile per la sua funzionalità. I Paesi
contrari all’iniziativa potrebbero utilizzare il
loro potere di veto come arma di ricatto per
imporre la loro partecipazione all’iniziativa
stessa e poi per bloccarne le decisioni. Lo
stesso ragionamento non vale invece per la
politica della difesa: il trattato prevede infatti
che, per autorizzare una cooperazione
rafforzata in questo settore (definita
“cooperazione strutturata permanente”), il
Consiglio decida a maggioranza qualificata.
Nel caso non fosse possibile instaurare una
cooperazione rafforzata per le materie
sopraccennate, si potrebbe ricorrere a un
trattato di natura costituente ad hoc – nel
quale includere eventualmente anche la difesa
- tra i Paesi pronti a sottoscriverlo, nella
speranza di estenderlo successivamente agli
altri Membri. Lo si è fatto per Schengen e per
il Fiscal Compact.
Il punto cruciale tuttavia è: quanti e quali
Stati europei che contano ai fini di creare la
necessaria massa critica intendono muovere
insieme verso una Europa politica con un
orizzonte federale? Nella attuale – e storica –
contingenza, è una verifica da fare con
urgenza. Mi auguro che il nostro Governo ne
sia cosciente e che il Presidente del Consiglio
decida di prendere l’iniziativa. A questo
stadio, l’alternativa alle scelte coraggiose è la
sconfitta definitiva del progetto europeo.