Essere o non essere un leader
di Clementina Carta
Vladimir Putin è stato da molti definito un leader e uno statista. È stato visto come il salvatore della Russia
post-Yeltsin, il guerriero solitario contro l’esercito di oligarchi e colui che ha collocato il paese al suo posto
attuale sulla scacchiera geopolitica. Eppure, oltre ai consensi crollati dall’opinione pubblica per la guerra in
Ucraina, Putin si è scoperto essere tutt’altro che un capo. Rintanato in un bunker nascosto e segreto a dare
ordini ai suoi ultimi epigoni rimasti, è finito ad essere prigioniero di sé stesso e non il liberatore che ha fatto
credere di essere.
Riprendendo un uomo il cui profilo per certi versi non era del tutto opposto a quello del presidente russo, si
capirà cosa porta un Capo di Stato ad essere leader e cosa invece lo porta ad essere un impostore la cui
immagine si aggrappa disperatamente ai faziosi di Europa e del mondo, a coloro che applaudono a Caino
per il fascino che il male provoca nei mediocri e negli stolti, in chi teme di cambiare di opinione dovendo
farsi due dolorosi conti in tasca. Se questi sono coloro di cui Putin ha bisogno per non venire
completamente eclissato dall’isolamento in cui si è ritrovato, di statista ha poco e niente.
Nel libro “La Russia di Putin” la profetica Anna Politovskaya scrisse:
“La paura è pane per i denti di un chekista. Non c’è nulla di meglio, per lui, del sentire che la massa che
vorrebbe sottomettere trema come una foglia.”
Putin, come tutti sanno, ha avuto una formazione di stampo sovietica nei servizi segreti. E per riuscire ad
emergere ha dovuto sottomettere il popolo di cui si è professato difensore. Ha ribadito più volte che la più
grande tragedia del XX secolo è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica e non ha nascosto la sua
intenzione di volerla ricreare non solamente da un punto di vista geografico ma anche politico.
C’è stato un altro uomo, anche lui militare, che si è presentato al popolo come liberatore e difensore del
suo interesse. Era anche lui conservatore, profondamente credente e praticante. Era il Generale De Gaulle,
passato alla storia non solamente come simbolo della Resistenza Francese, ma come simbolo della
Rinascita e della Grandeur che ha reso la Francia la potenza che è ancora oggi.
De Gaulle si definiva un fervente patriota, affermava che il più grande amore della sua vita era la Francia e
vedeva nelle prodezze di Napoleone un esempio da seguire sebbene avesse, già negli anni trenta,
profetizzato nuove tecniche militari che si sarebbero poi adoperate nella Seconda Guerra Mondiale. La
volontà di De Gaulle, durante la sua presidenza, di fare in assoluto l’interesse della Francia, lo aveva
allontanato dalle visioni atlantiste e rimanendo scettico riguardo alla coesione europea, ribadendo che lo
Stato francese dovesse essere completamente indipendente sul campo decisionale, senza però mai creare
eccessivi disordini diplomatici. Le sue opinioni sovraniste le esprimeva con morigeratezza, spiegandone i
motivi e finendo sempre per trovare il giusto compromesso tra la sua volontà e la realtà in cui il mondo, e in
particolare l’Europa, si era trovata dopo la guerra. Non dissimile dal presidente russo, i suoi rapporti con gli
americani non erano idilliaci proprio per non voler sottomettere la Francia all’egemonia statunitense,
tirandosi addosso l’antipatia di Roosevelt e più in là quella di Kennedy. Vi erano effettivamente delle
somiglianze nell’approccio alle Relazioni Internazionali di Putin e di De Gaulle, entrambi figli dell’esercito e
dichiarati anti-nazisti, sebbene il primo più del secondo, finito per sottomettersi alle follie del filo-nazista
Dugin, l’ideologo del Cremlino.
Ma vi sono delle differenze tra i due Presidenti e sono sostanziali. Tali divergenze si notano nella sicurezza
di sé e nell’amor verso sé stessi e quindi verso gli altri. Per il francese era così, per il russo meno.
De Gaulle era un generale resistente ex alunno di Saint Cyr, prestigiosa accademia militare francese fondata
da Napoleone. Nel ‘40, al momento dell’Appello di Londra, era un tenente colonnello particolarmente
apprezzato dall’ex primo ministro Reynaud, e che negli anni si è meritato egregiamente la crescita di gradi.
Putin invece, tenente-colonnello lo è sempre rimasto e lo rimarrà sempre, ed è apparentemente un nodo
che gli sta particolarmente stretto. Ha aggiunto al suo essere Homo Sovieticus un altro profilo, quello
dell’Homo Frustratus, condizione che ha afflitto moltissimi affezionati ai regimi autoritari. E l’Homo
Sovieticus è sempre rimasto lo stesso. È colui che non negozia ma minaccia. Colui che ricatta svelando una
perenne immaturità diplomatica, la quale necessita di un tempo di meditazione e di preparazione a
differenza dell’intimidazione, adoperata da chi di tempo non ne ha. Ma la tecnica della minaccia è una
tecnica particolarmente cara all’élite politica russa e sovietica, iniziata con Stalin che già alla Conferenza di
Teheran, nel ’43, ordinava agli Alleati di lasciargli i territori più ad Ovest, verso la Polonia. Tale approccio è
stato ripreso anche all’inizio della guerra fredda, quando proprio De Gaulle si rifiutò di negoziare perché
sotto ricatto di Nikita Chruščëv che ribadiva l’ultimatum minacciando la presenza alleata a Berlino. Il
Generale francese commentò l’accaduto così:
“In questa esplosione di anatemi e richieste organizzata dai sovietici vi è qualcosa di talmente arbitrario e
artificioso da indurre ad attribuirla allo scatenamento di ambizioni sfrenate o al desiderio di distogliere
l’attenzioni da grandi difficoltà: questa seconda ipotesi mi sembra tanto più plausibile in quanto, a dispetto
della coercizione, dell’isolamento e degli atti di forza con cui il sistema comunista rinserra i paesi sotto il suo
giogo…in realtà le sue carenze, limitazioni, fallimenti interni e soprattutto il carattere di oppressione umana,
sono sentiti sempre più dalle élite e dalle masse, che si possono sempre meno ingannare e soggiogare.”
Il discorso potrebbe valere perfettamente per la Russia contemporanea che dietro alla forza nasconde le
sue fragilità, dietro alla “liberazione dell’Ucraina” invece vi è l’ossessione di ritrovare la vecchia Unione
Sovietica sotto il giogo di Mosca, riappropriandosi della grandezza che l’Occidente ha strappato via.
L’ossessione di Putin è un’ossessione di grandezza che non arriverà mai, perché come diceva Sant’Agostino
nelle Confessioni: “Così la superbia vuole imitare la grandezza.” E la superbia è la caratteristica di chi grande
non ci si sente e sa di non esserlo, dovendo fingere o imitare chi lo è per davvero e così nascondere la sua
palese insicurezza.
Nel’41, quando De Gaulle non si arrendeva di fronte all’idea di trovare i giusti alleati per mandare avanti la
Liberazione della Francia, senza preoccuparsi dell’immagine di cavaliere ostinato che stava rivestendo,
Roosevelt giudicò la sua pervicacia apostrofandola come “Complesso di Giovanna D’Arco” poiché
determinato a fare davvero gli interessi della Francia ancor prima di quelli degli Stati Uniti. Ma tra
l’ossessione, la superbia, la frustrazione e la tenacia vi è un abisso, e la frustrazione camuffata in caparbietà
si tramuta spesso in arroganza. De Gaulle usò la sua cocciutaggine per liberare un paese da un’occupazione
nazista, Putin per occuparlo. E di certo nessuno potrà affibbiargli il soprannome di “Complesso di Aleksandr
Nevsky”, dato che di Santo il Capo di Stato russo ha poco e niente e ciò proprio perché lui la santità la
sbandiera invece di metterla in atto. Una delle caratteristiche più importanti dei santi è il coraggio e la
capacità di rimettersi in questione, lui di coraggio non ne ha neanche un briciolo poiché terrorizzato di
perdere il potere. E di rimettersi in questione è qualcosa che probabilmente non farà mai dato che convinto
delle sue ragioni e della sua ragione.
La ragione di De Gaulle per andare avanti a spada tratta nel fare l’interesse della Francia era semplice,
doveva avere le basi per ricostruire un paese che sarebbe stato devastato. E doveva riuscirci al meglio.
Durante l’epoca della liberazione aveva dimostrato un’inflessibilità non dissimile da quella di un autocrate,
caratteristica che Churchill gli aveva fatto notare tanto da indurlo a dare un aspetto legittimo alla France
Libre, l’organizzazione politico-militare da lui creata, e a costituire il CNF (Comité National Français). De
Gaulle aveva voluto evitare a tutti i costi un’amministrazione anglosassone dei territori liberati, come
proposto da Roosevelt, addirittura aveva minacciato di voltarsi verso un altro alleato, alludendo all’URSS.
Aveva dato una spallata al generale Giraud nel’43 sapendo che solamente la sua figura sarebbe stata
capace e accettata dal popolo francese di rappresentare la Francia liberata. Alle parole però, seguirono i
fatti. Ed i fatti si tramutarono nel successo che De Gaulle sapeva che avrebbe ottenuto. Si credeva che la
sua fosse arroganza quando in verità era grandezza, mentre in altri, si crede di vedere la grandezza quando
in realtà è prettamente arroganza, e di conseguenza alle parole i fatti non seguono mai.
Putin è l’emblema dell’uomo frustrato dalla sua piccolezza e che grazie ad una serie di circostanze ben
impostate e di conoscenze ben pensate è salito ai vertici. Ma non è salito crescendo, è salito
arrampicandosi sugli altri, schiacciandoli sotto di lui per timore che venissero fuori. De Gaulle era un
guerriero, Putin un arrivista. Anna Politovskaya lo ha definito il secondo Akaki Akakevich, e miglior
definizione di lui non si poteva avere. È in effetti quel piccolo funzionario gogoliano, protagonista della
celebre novella “Il Cappotto”, bisognoso di ostentare la sua grandezza per sentirsi tale. Akaki Akakevich lo
fece col cappotto nuovo e il cappotto di Putin è la Russia stessa.
A Putin dei russi non gliene importa nulla, sono un mezzo per raggiungere il potere personale, De Gaulle
viveva per dare ai francesi la dignità che la guerra aveva loro rubato. Mandò avanti il processo di
decolonizzazione, lasciando la presa dell’impero di Francia, rendendosi conto di come quella concezione
fosse stantia e svantaggiosa per colonizzati e colonizzatori, credendo che l’umanità dovesse venir prima dei
trionfi personali nonostante non fosse egli privo di vanità.
Putin, al contrario, vuole forgiare di nuovo una mentalità andata ormai ad estinguersi nell’essere umano e
negli Stati, dimenticandosi che gli imperi non funzionano a lungo andare dato che è impossibile governare
con efficacia un così ampio numero di popoli conquistati. I problemi della Russia sorgono proprio a causa
della vastità del suo territorio che ingloba una miriade di culture, di lingue, di religioni e perciò di società
diverse sotto un’unica bandiera, fattore che sta alla base dei movimenti indipendentisti soprattutto nel
Caucaso. Putin però non solo lo nega ma non vuole vederlo, negandolo a sé stesso, volendo convincersi
dell’esistenza di una cultura dominante sulle altre. E ciò spiega anche il motivo per cui Paesi Baltici e
Polonia, alla fine della guerra fredda, hanno voltato completamente le spalle alla Russia, non volendola più
guardare in faccia e girandosi solamente per controllare che non si spinga troppo in là, ritrovandosela
ancora una volta alle porte di casa. Per costruire e mantenere un impero è necessario il massacro di grandi
popolazioni e chi sopravvive finisce sempre per venire oppresso, e di questo ne stiamo avendo ancora la
prova oggi. Putin gioca la carta della religione comune, dell’ortodossia, della Chiesa di Mosca, da cui Kiev si
è resa autonoma, volendo però lui riconquistarla. Ma di devoto il presidente ha poco, e la Chiesa ancora
una volta si ritrova ad essere l’asso nella manica di un dittatore che decide di darsi alla retorica per
camuffare la realtà. Putin ostenta una bigotteria affettata nella quale nemmeno lui realmente crede per
quanto abbia raccontato più volte che da piccolo sia stato battezzato di nascosto e di come ciò lo renda
fiero di sua madre. In lui è palese un imprinting sovietico che della cristianità ne ha fatto tabula rasa perché
era un potere di troppo. Ma era un potere. E questo Putin lo capisce perfettamente e per questo vanta
della sua amicizia con il Patriarca attuale e con il precedente, per raddoppiare il potere che non deve
solamente limitarsi a quello temporale ma inglobare anche quello spirituale.
La Chiesa è stata anche però molto vicina al Generale francese nonostante la legge sulla laicità voluta da
Napoleone, e che De Gaulle, pubblicamente, ha rispettato. Si era fatto costruire a sue spese una piccola
cappella all’Eliseo dove pregava quotidianamente insieme a suo nipote sacerdote, diventato suo padre
spirituale. Dichiarò di essere stato sostenuto dallo Spirito Santo durante la campagna di liberazione e
nell’arco della sua vita si descriverà più volte come un penitente e un pellegrino, non rinnegando mai la
formazione cattolica ricevuta, alla quale teneva particolarmente. Come d’altronde vi tenevano tutti i padri
fondatori della Comunità Europea, punto di convergenza di coloro che hanno tirato fuori l’Europa dalle
macerie della guerra. Come De Gaulle, anche Adenauer, Schuman, Monnet e De Gasperi erano cattolici
praticanti e fondatori di partiti dai valori cattolici, eppure non hanno mai rivestito le vesti dei bigotti
tendenti alla superstizione e al populismo. Non hanno mai tirato fuori il jolly oscurantista per sottomettere
le persone a paure infondate. Tutti loro, al contrario, hanno creduto nei valori non solamente di fratellanza
e carità, ma anche nella luce che la religione cristiana doveva portare nella vite delle persone, portandole
lontane dall’oscurità in cui si erano ritrovate durante la guerra.
De Gaulle era per molti versi molto più conservatore di Putin, ma il suo tradizionalismo non si convertì mai
in un populismo carnevalesco, al contrario, lo manifestava nella sua integrità e nella sua mitezza, qualità
che nessun dittatore o pseudo dittatore ha mai vantato.
Un leader non spaventa ma incita e Putin non ha mai avuto le caratteristiche del leader per quanto le
Relazioni Internazionali gliele abbiano attribuite in passato, così come lui continui ad attribuirsele ancora
oggi. È a capo di un sistema corrotto in tutti i settori, dalla sanità alla giustizia all’educazione. Si è
accaparrato di una somma di denaro pari a 4,5 miliardi di dollari con una popolazione il cui 80% è sotto la
soglia di povertà. Le difficoltà economiche russe vanno anche a braccetto con la sua geografia e per evitare
scandali pecuniari, bastava che il presidente rimanesse più umile, che non si facesse annebbiare la mente
dal nuovo lusso come la più parte dei funzionari ex sovietici, e cascare così nella figura grottesca del
despota tipico di un paese in via di sviluppo. Da trent’anni. Cosa che Putin non vuole assolutamente che si
dica della Russia. Eppure è ancora un paese in via di sviluppo. A questo punto, si capisce anche il perché.
Putin, come tutti i dittatori, si attacca nella sua campagna politica all’idea di “ordine” non avendo però piani
d’industrializzazione per far crescere la sua popolazione. Il suo è un ordine che mira all’asservimento
necessario per manovrare i cittadini senza che questi possano emanciparsi, col rischio per lui che imparino
a pensare. La stessa propaganda di Stato è basata su una sorta di minaccia velata e non, dovendo far
trasparire l’autorità del presidente dove lo si vede intento a fare prediche e ramanzine ai ministri e ai
membri del parlamento. Non elimina le persone dal suo circuito perché sono negligenti o incapaci, le
elimina quando queste iniziano a pensare di testa propria. Putin segue una linea neo-machiavellica poco
chiara a dire il vero. Sprofonda sotto agli occhi stufi del mondo in un anacronismo paradossale e pericoloso
non tanto per il resto degli Stati quanto per il suo. Le due guerre cecene e le ignominie messe in atto in
Cecenia dall’esercito russo hanno avuto come conseguenze due tragedie quasi senza pari all’interno del
paese: la strage nel teatro Dubrovka nel 2002 e quello nella scuola di Beslan nel 2004, da parte dei
terroristi. C’è da chiedersi se ha ipotizzato quali potrebbero essere le conseguenze della guerra in Ucraina e
se il suo piano di grandeur non possa portare con sé qualche altra catastrofe a dir poco sgradevole per la
Russia stessa.
Vladimir Putin, continuando a minacciare l’Occidente con conseguenze apocalittiche nel caso si dovesse
alzare un dito contro la Russia o si rifornisse con più armi l’Ucraina, esorta alla passività e all’inezia per
evitare anche di doversi ritrovare contro l’esercito della Nato. Il presidente brasiliano Lula, così come
Berlusconi, dichiarando di non schierarsi né con l’uno né con l’altro, affermando che la colpa ricade anche
su Zelensky e l’Occidente, nascondendosi dietro a una moderna politica di appeasement e di non
allineamento, rischiano di cadere nella trappola in cui è finito Neville Chamberlain. Trappola in cui sono
caduti in molti ultimamente. O in cui sono voluti cadere. Come accadde anche al duca di Windsor a suo
tempo, ex re Edoardo VIII, che scusò i suoi legami con i nazisti affermando il desiderio di pace e cordialità
tra Regno Unito e Germania e che nessuno avrebbe potuto prevedere quale mostro Hitler sarebbe
diventato. Le stesse parole sono uscite dalla bocca e dalla penna di tanti politici, giornalisti, opinionisti ed
esponenti del quarto potere riguardo a Putin. Nulla di quanto detto è vero. Perché i casi sono due: il primo
è che come il duca di Windsor, filo-nazista recondito, molti sono filo-putiniani senza avere il coraggio di
dichiararlo, o, nella seconda ipotesi, sono intrisi di un’ingenuità a dir poco preoccupante. Tutto era
prevedibile, i segnali c’erano e travestirsi da pacifisti per nascondere la passività e la codardia di fronte alla
lotta per difendere i propri valori ha una sola motivazione, che le persone così dette pacifiste non hanno
valori. Il pacifismo va a braccetto con l’inerzia e l’inerzia con l’omertà. Ciò vorrebbe dire che in molti
sarebbero disposti a guardare le efferatezze messe in atto da un uomo frustrato e capriccioso, per dire in
futuro che loro avevano creduto nella pace non agendo. Ma, malgrado loro, malgrado l’immagine di
morigeratezza che spererebbero di propinare, non hanno creduto nella libertà, condizione per la quale
bisogna sempre lottare poiché non arriva mai da sola. D’altronde è ciò che il Generale francese ha
insegnato al mondo e alla storia, e come sottolineò Henry Kissinger nel suo libro “Leadership”: “De Gaulle
guidò e ispirò i propri sostenitori con l’esempio, non con gli ordini.”