L’ambigua relazione turco-russa
I rapporti tra i paesi dell’Alleanza Atlantica con un membro scomodo come la Turchia si stanno ulteriormente incrinando per via di nuovi accordi contrastanti presi con la Russia.
La Turchia, porta sul Medio Oriente e sull’Asia, è un punto geografico strategico per la NATO e gli americani.
Ricordiamo che sin dai tempi della guerra fredda, quando l’amministrazione Kennedy nel ‘62 vi sistemò, nelle sue basi, i missili Jupiter, minaccia contro l’Unione Sovietica, che diedero il “la’” per la Crisi di Cuba.
Le contraddizioni della Turchia sono di varia natura, ma alla base di queste si trova sempre una motivazione opportunistica, come quella di far parte della Nato pur essendo ormai una nazione sempre più integrata nel mondo islamico.
Citando un esempio recentissimo, la riconversione di Santa Sofia in moschea, voluta da Erdogan che cerca sempre più il consenso nel mondo mussulmano.
Inoltre si dibatte in Europa da anni il desiderio della Turchia di poter far parte dell’UE, nonostante non rientrino in nessun molti criteri ai quali uno Stato Membro dovrebbe sottostare, oggi particolarmente a cominciare dal rispetto della democrazia e delle libertà fondamentali dell’uomo.
Si sa che da sempre la Russia e la Turchia non hanno avuto rapporti idilliaci, ma negli ultimi tempi sembrerebbe soffiare un vento di “amicizia” tra i due paesi, i cui scontri storici hanno anche determinato lo scambio e la condivisione di elementi culturali affini.
L’escalation dell’ultimo anno ha fatto tremare Stati Uniti ed il Patto Atlantico, vedendo due” Rais”, da anni ormai alla presidenza delle rispettive nazioni, accordarsi su piani e prospettive politico-militari.
Le guerre russo-turche sono conosciute per essere la serie di conflitti più lunghi nella contesa di territori nel Caucaso e nell’Europa dell’Est, determinate dal continuo intento degli Ottomani di conquistare parte dell’Ucraina.
Nonostante l’odio sorto tra i due Imperi, le precedenti e sanguinose conquiste Mongole hanno favorito un legame di ceppo linguistico tra le popolazioni.
Si noti, di fatto, come le lingue nazionali dei paesi dell’Asia Centrale siano tutte di ceppo turco, così come molte lingue all’interno della Russia stessa, dove la più famosa è il tartaro, parlato moltissimo anche in Crimea, oltre che nella Repubblica del Tatarstan, dato che nella penisola nel periodo pre-rivoluzionario contava una maggioranza tartara mussulmana.
E proprio partendo dai presupposti religiosi, Russia e Turchia, possono trovare una prima intesa, magari con diverse finalità.
Certo, l’approccio dei due Stati con l’Islam è agli antipodi: Erdogan, ha nel suo intento quello di smantellare la laicità dell’eredità di Atatürk, applicando politiche sempre più conservatrici e pericolose nell’atteggiarsi il paciere tra sciiti e sunniti rivestendo quasi i panni di un moderno profeta, riabbracciando i valori dell’Impero Ottomano, a discapito del progresso sociale di un paese.
Dopo anni di visione liberale le donne vengono sempre più sottomesse da un fondamentalismo che legittima una violenza domestica brutale, ignorata da una società omertosa, che durante il lockdown della pandemia ha contato una donna uccisa al giorno.
La violenza domestica non è problema meramente turco ma anche russo, dove però i centri di accoglienza per le donne maltrattate aumentano di anno in anno, nonostante il cammino da intraprendere per estirpare questa piaga sia ancora lungo.
Le violenze non riguardano solo un fattore religioso in una società come in quella turca ancora prettamente patriarcale, ma si somma all’alto tasso di abuso di alcol per il quale, ahimè, i russi sono famosi.
L’egemonia in entrambi i casi deriva da una base religiosa, come Erdogan, anche Putin si è schierato, a spada tratta, come sostenitore dei valori della Chiesa russa ortodossa, ostentando “mediaticamente” un credo profondo e costante.
Si ricorda in Russia l’uso del Domostroj, codice etico matrimoniale in auge durante l’Impero e approvato dalla Chiesa, che autorizzava il pater familias a picchiare col bastone, se ritenuto necessario, moglie e figli.
Per ciò che riguarda il rapporto di Putin con l’Islam, esso è andato negli ultimi anni a migliorare, soprattutto dopo aver nominato a capo del governatorato ceceno il fedelissimo Ramzan Kadyrov, capo paramilitare della Cecenia che ha attutito l’astio tra la Repubblica e la Federazione a seguito delle due guerre e dei numerosi attentati nelle principali città russe.
La lotta contro il terrorismo islamico in Russia è stata netta ed efficace, per non dire spietata. La tecnica di Putin ha previsto il “non perdono”, vietando ai foreign fighters il ritorno in Patria, imprigionando a vita coloro che sono stati colti in flagrante nelle moschee mentre predicavano dottrine fondamentaliste e violente,più la creazione di strutture dove i bambini radicalizzati dai genitori venivano rieducati per una reintegrazione pacifica nella società russa.
Proprio all’inizio dell’estate 2020 l’FSB è riuscito a bloccare un attentato di matrice islamica a Mosca, messo in atto da un ragazzo originario dell’Uzbekistan, paese nel quale l’Islam radicale sta prendendo sempre più piede.
Vladimir Putin però, per quanto abbia adottato la dottrina della “tolleranza zero” nei confronti dei terroristi, ha sempre mantenuto un rapporto di tolleranza se non di amicizia con la comunità islamica in Russia, facendo essa parte, da sempre, della cultura e della società della Federazione, che ne conta al suo interno più di venti milioni, ubicati in particolar modo nel centro del paese e nel Caucaso.
Il Caucaso, per i turchi, rimane una ferita che difficilmente si rimarginerà per i conflitti vissuti e in corso, la regione narra storie d’incontri, di scambi e di lotte tra popoli, per certi aspetti, non così dissimili.
Alla fine del XVII secolo, la dinastia iraniana dei Safavidi, in declino, decise permettere all’Impero russo e a quello ottomano di cogliere l’occasione per conquistare svariati territori di un’importanza geografica e strategica non indifferente.
La Russia, guidata all’epoca da Pietro I nel corso della grande guerra russo-persiana, si accaparrò dei territori di Daghestan, Azerbaijan e dell’Iran del Nord.
La Turchia invece conquistò tutti i territori ad Ovest dell’attuale Armenia, parte dell’Anatolia orientale e l’attuale Iran occidentale. Conquiste confermate poi nel trattato di Costantinopoli nel 1724.
Oggigiorno l’area del Caucaso continua ad essere motivo di tensione e litigi per via del territorio del Nagorno Karabakh conteso tra Armenia, questa sopportata dalla Russia, e l’Azerbaijan, appoggiato dai turchi; conflitto che vede sul primo piano una palese scissione religiosa tra cristiani e musulmani.
Di questi tempi i motivi di crisi sono cambiati dai tempi degli Imperi, e denotano la sete di conquiste economiche e strategiche legate, naturalmente, all’energia.
Vi è però uno sviluppo e un cambiamento interessante nelle personalità di entrambi i presidenti che trovano una sintonia nel detto: “Mal comune mezzo gaudio.”
Negli ultimi due anni la leadership di Putin ha visto un declino sorprendente nelle città principali della Federazione, dove manifestazioni hanno occupato le strade per protestare per i diritti per gli omosessuali, perseguitati brutalmente in Cecenia e denigrati nel resto del paese, per la corruzione dei membri del governo e dei fedelissimi del presidente, per toccare in fine il tasto degli arresti ingiusti degli oppositori.
I blog, come quello di Naval’ny, avvelenato ad agosto, e di molti giovani attivisti pietroburghesi e moscoviti, hanno dato il via e stanno tenendo saldo il timone per un’ipotetica virata verso un cambiamento definitivo, che però, a giugno, ha centrato in pieno l’iceberg del referendum costituzionale.
Per la sorpresa di analisti e cittadini, l’indebolimento della leadership “putiniana” non si è limitata alla capitale e a Pietroburgo, ma si è espansa fino alla Repubblica del Tatarstan, dove il presidente della regione eletto a suffragio universale, Rustam Minnikhanov, è l’unico leader regionale a mantenere il titolo presidenziale malgrado una legge federale lo vieti.
I traballanti rapporti interni con i capi dei governi locali e con un malcontento crescente, fa sì che Putin cerchi alleati al di fuori dei confini nazionali, leader con approcci simili ai suoi alla politica, d’ideologia conservatrice ed espansionistica e con una situazione non del tutto stabile, che li porti a loro volta ad aver bisogno di un alleato prestigioso quale lui potrebbe perfettamente rappresentare.
Negli ultimi tre anni si è osservato come i due leader, Putin ed Erdogan, vantino comportamenti e progetti affini:
La Riforma Costituzionale in Russia, approvata il 2 luglio 2020 con il 77, 9% dei voti a favore, ha permesso un annullamento dei mandati del presidente in modo tale da ripristinare il contatore da zero e rimanere in carica sino al 2034.
Cosa analoga era avvenuta in Turchia con la riforma di Erdogan votata in Parlamento nel 2017, che prevedeva un prolungamento della carica sino al 2029, istituendo così un governo presidenziale.
La crisi Libica in corso è una scacchiera sulla quale Russia e Turchia non sono schierato l’una contro l’altra, ma discutono di possibili accordi diplomatici e militari per una possibile intesa dei territori, per quanto però, gli interessi economici di entrambi potrebbero portarli ad un ennesimo scontro.
L’obiettivo comune è quello di investire, come prevedibile, nel settore energetico dove si contavano, ai tempi di Gheddafi, 30 mila lavoratori turchi.
La Turchia ha una storia di attività non indifferente nel mercato finanziario libico, essendo la Libia il primo investitore nel TMB, il “Turkey Contractor Association” nel 1972.
La Russia non è stata meno presente in ambito libico, in quanto partner e rivale nel settore energetico prima delle dimissioni di Gheddafi, con un’attività costante dei colossi Gazprom, Lukoil, che firmarono un accordo con la Libia nel 2000 ed in seguito raggiunti da Tatneft.
Successivamente alle dimissioni di Gheddafi numerosi sono stati gli intenti del ritorno dei russi in Libia. La compagnia petrolifera, Rosneft, ha firmato un accordo nel 2017 con la Libia per l’acquisto di petrolio alla Libya’s National Oil Corporation (NOC) tramite un pagamento a lungo termine simile a quello effettuato in Venezuela e in Kurdistan.
Gli accordi turchi però, non sono da meno, e rischierebbero di far saltare in aria i piani dei russi i cui mercenari sul solo libico sono stati segnalati dal governo di Tripoli e di conseguenza, dimostrazione che in questo settore la presenza di compagne russe ormai sono decisamente meno gradite.
Conclusione: la Turchia, il nostro polimorfo alleato NATO, incurante dei i canoni etici che l’Occidente con fatica ha costruito, tiene in scacco l’Alleanza Atlantica operando in aree molto sensibili, strategiche ed economiche (nonché religiose) a fianco dell’occasionale partner Putin. Il futuro sarà un vero e non eludibile banco di prova per la NATO, Turchia e Russia.