Regno Unito e Unione Europea: un divorzio maturato da tempo
Dal 31 gennaio il Regno Unito non fa più parte dell’Unione Europea. Sul piano interno britannico il processo politico di distacco si è aperto con la vittoria – di stretta misura – del movimento per l’uscita in occasione del referendum del 23 giugno 2016; e si è concluso con il successo – questo netto – del Primo Ministro Boris Johnson (e del suo progetto di recesso dall’Unione) nelle elezioni del 12 dicembre 2019.
Per l’Unione Europea l’accordo di recesso, negoziato nel corso dei tre anni precedenti, è stato approvato dal Parlamento Europeo il 29 gennaio 2020 e dal Consiglio Europeo il 30 gennaio. Per un periodo transitorio che va fino al 31 dicembre continueranno ad applicarsi al Regno Unito le regolamentazioni europee e le frontiere rimarranno aperte, al fine di consentire un recesso ordinato in attesa della conclusione entro la stessa data di un accordo che regoli le future relazioni tra l’Unione Europea e Londra. Il termine del 31 dicembre potrà essere prorogato di comune intesa. I futuri negoziati sono stati affidati per l’Unione Europea a Michel Barnier, l’ex Commissario europeo che li aveva condotti, con abilità e correttezza, nei tre anni precedenti. I Paesi Membri faranno bene, nel loro stesso interesse, a non farsi irretire dalle blandizie alternate a ricatti che certamente metteranno in atto i britannici sul piano bilaterale; e a rimanere uniti, come hanno fatto finora.
Dopo quarantasette anni di matrimonio, dei quali quasi la metà passati da separati in casa, quali sono state le ragioni del divorzio? Quali saranno le conseguenze per la Gran Bretagna? E quali saranno le conseguenze per l’Unione Europea? Al primo quesito mi sento di rispondere che il divorzio era prevedibile da tempo, perché l’unione si era rivelata infelice abbastanza presto per le incomprensioni tra i contraenti. Agli altri due quesiti rispondo che le conseguenze non saranno drammatiche per l’Unione Europea; mentre per il Regno Unito saranno determinanti il contenuto del futuro accordo con Bruxelles e quello degli accordi commerciali che Londra intende concludere con altri Paesi, Stati Uniti innanzitutto: accordi tutti da inventare. Da giocatore spregiudicato, Johnson ha scommesso al buio e gli inglesi hanno deciso di rimanere al tavolo: anche a loro evidentemente piace il gioco d’azzardo.
Quando Cameron convocò il referendum sulla appartenenza del suo Paese all’Unione Europea nel 2016 non mi fu difficile prevederne il risultato. Ero convinto infatti da molti anni che l’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione Europea non era più accettabile per moltissimi inglesi; e anche per non pochi europei del continente. La possibilità introdotta nel 2007 di uscire legalmente dall’Unione (articolo 50 del Trattato di Lisbona) ha offerto finalmente a Londra la possibilità di andarsene senza strappi, salvaguardando i benefici commerciali del rapporto con l’Unione. Sono giunto a questa conclusione alla luce dell’esperienza concreta sul terreno, dopo aver sperato a lungo sul contributo positivo che il Regno Unito avrebbe potuto dare all’integrazione europea.
Negli anni ‘60, seguendo i dibattiti in Gran Bretagna sull’adesione alle Comunità Europee, avevo percepito che l’argomento inquietava una opinione pubblica divisa e incerta e induceva i due principali partiti a ripetuti cambi di posizione. Ma non mi ero reso conto che tra i cittadini britannici vi fossero fratture così profonde come ho potuto capire in seguito. L’Accordo di adesione era stato negoziato e concluso nel 1972 dal Governo conservatore di Edward Heath, che perse le elezioni due anni dopo. I primi passi di Londra nelle Comunità diedero indicazioni non univoche sull’umore degli inglesi. Il nuovo governo laburista di Wilson ribaltò la precedente posizione contraria all’Europa del suo partito e si impegnò a fondo per vincere (bene) nel 1975 il referendum sulla conferma popolare all’adesione: un buon esempio di pragmatismo britannico. Alcuni dei primi Commissari del Regno Unito diedero un riconosciuto contributo ai progressi dell’integrazione europea: Jenkins all’unione economica e monetaria; Thompson alla politica regionale; Cockfield alla realizzazione del mercato unico. Altri, come Soames, remarono sempre contro tutti i progetti europei volti al futuro dell’integrazione e si preoccuparono solo di difendere i più immediati interessi nazionali del loro Paese. Ho riscontrato lo stesso atteggiamento non univoco tra i funzionari britannici della Commissione che ho incontrato in quegli anni. I Governi inglesi di quel periodo partecipavano comunque attivamente agli equilibri politici complessivi, come io avevo sperato, e davano ai lavori comunitari un contributo di buon senso critico e spirito pratico. Ma allora non si parlava ancora in concreto di “unione politica”.
Il quadro divenne più chiaro a partire dagli anni ‘80, quando la Dichiarazione Genscher-Colombo del 1981 innescò un grande dibattito sugli obiettivi politici dell’integrazione. A questo dibattito diede un fondamentale contributo il primo Parlamento Europeo eletto a suffragio universale e diretto, nei cui lavori Altiero Spinelli e Mauro Ferri svolsero un ruolo centrale. Quasi contestualmente, la Signora Thatcher divenne Primo Ministro in Gran Bretagna. Da quel momento Londra fu sostanzialmente assente nella dialettica politica europea sui grandi temi del futuro e badò solo ai propri immediati interessi, utilizzando la presenza nelle Istituzioni per frenare come poteva ogni sviluppo verso più elevati livelli di integrazione. Quando non ci riusciva, si chiamava fuori dai progressi più significativi: moneta unica, libera circolazione delle persone, spazio unico di libertà e giustizia. Tony Blair tentò durante i suoi governi a cavallo degli anni 2000 di riportare Londra nel filone della grande politica europea: senza grandi successi di sostanza e comunque sempre col piede sul freno. Nei fatti il Regno Unito ha partecipato dal 1992 in poi solo al grande mercato unificato. D’altra parte, nel fare domanda di adesione, il suo obiettivo era stato quello di inserirsi in un esperimento commerciale di successo, per conseguirne i benefici ma controllarne gli sviluppi. La generalità degli inglesi non era cosciente tuttavia, almeno all’inizio, che gli obiettivi politici dell’integrazione avrebbero finito per essere posti con forza negli altri Paesi Membri. Pur non partecipando concretamente ai progressi dell’integrazione conseguiti dopo gli anni ‘ 80, Londra ha avuto diritto di voto (e, quando previsto, di veto) in tutte le questioni. E allora, se la Gran Bretagna aveva tutti i diritti e pochi obblighi, perché ha deciso di andarsene?
L’Inghilterra è un’isola che non ha subito invasioni dall’esterno da mille anni; che ha respinto tutti i tentativi di invasione negli ultimi cinque secoli da parte di spagnoli, francesi e tedeschi; e che ha sviluppato una cultura politica di orgogliosa indipendenza sostenuta dai successi conseguiti come potenza mondiale per almeno tre secoli. La sovranità nazionale britannica è un dogma di fede per gli inglesi. Anche gli scozzesi hanno il loro forte senso nazionale. Ma la loro storia ha generato una diversa sensibilità nei confronti dell’Europa: la parola “unione” (quella che hanno dovuto subire con l’Inghilterra) evoca in loro fantasmi ben più inquietanti di quelli della più lontana e interpretabile nozione di “unione europea”. I risultati del referendum sull’Europa in Scozia e in Irlanda del Nord nel 2016 sono stati diversi che in Inghilterra, così come quelli delle elezioni del 12 dicembre scorso. Gli scozzesi e gli irlandesi del Nord potrebbero trarre da Brexit conseguenze diverse da quelle della maggioranza degli inglesi.
Robert Schuman in uno dei capitoli del suo testamento politico scrisse nel 1963: “Nessun Governo e Parlamento britannico accetterà mai leggi fatte fuori da Westminster”. E invece gli inglesi hanno dovuto accettare sempre più numerose e pregnanti leggi prodotte a Bruxelles. L’armonizzazione delle legislazioni necessaria per consentire il funzionamento del mercato unico senza disfunzioni e frizioni ha richiesto rigide regolamentazioni (di stampo germanico) e indirizzi dirigistici (di stampo francese) che hanno disturbato gli inglesi, costituzionalmente refrattari a rigidità e dirigismi. Analogo effetto hanno avuto svariate prescrizioni europee in campo sanitario, giudicate nel Regno Unito eccessive e contrarie agli interessi dei consumatori, anche quando relative a prodotti di comprovata dannosità almeno per la collettività scientifica continentale. Mi rendo conto che sono state così imposte ripetute sofferenze alla maggior parte degli inglesi; i quali vogliono ora recuperare la propria sovranità in campo regolamentare e nei rapporti commerciali con l’estero per produrre, comprare e consumare quello che ritengono utile e sano a casa loro, non quello che è considerato utile e sano dal resto dell’Europa. Elemento non trascurabile della disaffezione britannica è stata la dimensione del contributo netto al bilancio comunitario, dovuta soprattutto agli effetti della politica agricola comune, a fronte di ritorni giudicati insufficienti. Negli ultimi anni infine l’incapacità delle istituzioni europee di dare una risposta adeguata alla crisi economica ha convinto molti inglesi che il progetto di successo nel quale avevano creduto negli anni ’60 e ’70 era fallito.
I cittadini britannici non hanno perdonato ai tedeschi i crimini orribili commessi dai loro governanti e dai loro militari durante la seconda guerra mondiale. Non posso dare loro torto. La crescita del peso della Germania in Europa dopo l’unificazione e la rinascita di movimenti nazisti negli ultimi anni hanno acuito in Gran Bretagna le preoccupazioni circa un deliberato disegno tedesco di egemonia sul continente: pericolo contro il quale gli inglesi si sono battuti con successo in due guerre mondiali. Non mi sento di escludere che il pericolo esista. Non sono sicuro però che provenga da una deliberata e cosciente volontà della dirigenza tedesca. Sono convinto comunque che possa essere contrastato meglio, almeno dall’Italia, stando dentro, piuttosto che fuori, dell’Unione; e lavorando in stretta intesa con la Francia: cosa che non abbiamo fatto abbastanza negli ultimi anni.
In conclusione, ritengo che l’obiettivo principale della decisione dei britannici di uscire dall’Unione sia stato soprattutto quello di recuperare la sovranità nazionale per concludere accordi commerciali con chi e come vogliono: con l’ambizione di tornare alla posizione di superpotenza commerciale e finanziaria, senza condizionamenti di carattere politico o morale provenienti dal continente. A me sembra però che, per conseguire una tale posizione, un Paese dovrebbe essere anche una grande potenza manufatturiera ed economica, come il Regno Unito nel 1800, gli Stati Uniti in questo secolo e nel precedente e la Cina in questo.” Global Britain “ è stato comunque lo slogan con cui Boris Johnson ha conquistato il voto degli inglesi nelle ultime elezioni. L’assenza di una proposta commerciale convincente é il motivo per il quale la Signora May non è riuscita invece a ottenere l’avallo del Parlamento sull’accordo che aveva negoziato con l’Unione Europea. Per mantenere l’unità del mercato tra Irlanda del Nord e l’Irlanda e evitare il risorgere di una guerra civile, la Signora May aveva accettato che tutto il Regno Unito rimanesse nell’unione doganale europea, in attesa di individuare una soluzione tecnica innovativa, e finora inafferrabile, che consentisse la libera circolazione delle merci tra questi due territori, anche se fossero stati sottoposti a regimi doganali diversi. Johnson ha ribaltato il teorema: l’Irlanda del Nord, pur rimanendo formalmente nel territorio doganale del Regno Unito (ma con regole allineate a quelle dell’Unione Europea), sarà soggetta a controlli per le merci provenienti dalla Gran Bretagna al fine di evitare distorsioni di traffico. Vi sarà quindi di fatto una frontiera tra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito: frontiera poco visibile perché marittima (nei porti). Questo regime potrà essere sospeso dopo un periodo transitorio di quattro anni a seguito di una richiesta del Parlamento nord-irlandese. Si tratta di una soluzione immaginativa, ma di complessa attuazione e verifica: non mancherà di provocare contestazioni e polemiche.
Vari osservatori prevedono che Scozia e Irlanda del Nord potrebbero in futuro decidere di staccarsi da Londra. Johnson conta evidentemente sulla sua riconosciuta abilità negoziale e sul proverbiale pragmatismo dei suoi concittadini. Ma la conclusione di accordi commerciali vantaggiosi con i Paesi terzi non sarà facile, a cominciare da quello con gli USA, a seguito della perdita di potere negoziale di un Paese che conterà su un mercato interno di solo 60 milioni di abitanti. In conclusione, non sono sicuro che con Brexit gli inglesi diventeranno più ricchi; ma penso che molti di loro si sentiranno più felici.
Il primo accordo commerciale da concludere per Londra sarà quello con l’Unione Europea. La Dichiarazione politica sulle future relazioni tra Unione Europea e Regno Unito, che accompagna l’accordo di recesso, ha recepito la richiesta britannica che l’obiettivo finale del negoziato sia un Trattato di Libero Scambio così da lasciare a Londra l’intera sovranità doganale. Per evitare dazi negli scambi e restrizioni quantitative, Londra dovrà tuttavia accettare di rispettare determinate disposizioni a tutela della parità di condizioni: in materia di concorrenza, aiuti di stato, fiscalità, ambiente, occupazione e aspetti sociali. E’ facile prevedere che la conclusione dell’accordo non sarà priva di difficoltà e la sua attuazione di frizioni. Quanto alla sorte dei cittadini dei Paesi dell’Unione nel Regno Unito e dei cittadini britannici nei Paesi dell’Unione, i loro diritti acquisiti saranno salvaguardati, se già residenti; quelli che si trasferiranno dopo la fine del periodo transitorio dovranno rispettare le procedure, rispettivamente britanniche ed europee, previste per l’immigrazione da Paesi terzi. Se l’accordo di Libero Scambio si concluderà positivamente, Londra manterrà la sostanza dei benefici commerciali derivanti dal suo passato status di membro dell’Unione Europea, tornando però padrona a casa sua. Le due Parti si sono impegnate inoltre a cooperare in materia di sicurezza. Sul piano politico più generale le maggiori cariche europee hanno ricordato nel giorno della separazione gli storici rapporti col Regno Unito ed espresso la volontà di operare per stabilirne di nuovi altrettanto solidi.
Veniamo ora alle conseguenze per l’Unione Europea. Quelle commerciali saranno speculari rispetto a quelle per il Regno Unito e di beneficio per entrambe le Parti, sempre se verrà concluso un accordo soddisfacente, essendo l’obiettivo quello di mantenere sostanzialmente immutati gli scambi. Per quanto riguarda il futuro dell’integrazione economica, cesserà l’azione di freno di Londra, così come quella che la Gran Bretagna ha costantemente esercitato su politica estera, sicurezza e difesa. Ma le difficoltà maggiori non sono venute negli ultimi anni solo da Londra, ma anche dalle incomprensioni e diffidenze tra gli altri Paesi Membri. Non credo quindi che l’uscita della Gran Bretagna farà molta differenza ai fini dell’integrazione economica e sociale europea, anche perché Londra era già fuori dai progetti più avanzati. Spero però che l’assenza di Londra consentirà di mettere finalmente un po’ di ordine nei mercati finanziari e di fare qualche progresso in materia di sicurezza e difesa. Tra gli svantaggi per l’Unione devo segnalare in primo luogo la perdita del prezioso contributo critico, ispirato a pragmatismo e buon senso, dei diplomatici e negoziatori britannici; e, solo in seconda battuta, il venir meno dell’apporto finanziario del Regno Unito, che era rimasto un importante contributore netto nonostante gli “sconti” ottenuti. Questo secondo “buco” potrà essere colmato; il primo, no.
Vorrei infine sfatare due leggende. La prima narra che l’Europa comunitaria perderà peso sul piano mondiale per l’assenza di un Paese che è membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e che è dotato di consistenti capacità militari inclusa l’arma atomica. Il Regno Unito si è ben guardato dall’impegnare il suo peso politico e militare per promuovere quello dell’Europa in quanto tale; si è soprattutto preoccupato di salvaguardare il proprio peso nel mondo; e ha costantemente frenato sulla politica estera e di sicurezza comune. L’Unione Europea potrà diventare grande protagonista della politica mondiale solo quando disporrà di una adeguata capacità militare e della determinazione di usarla; meno irrealisticamente, quando i suoi Stati Membri avranno conseguito credibili capacità militari nazionali e le avranno messe al servizio di un comando coordinato a livello europeo, possibilmente armonizzando armamenti e procedure; a condizione ovviamente che possano mettersi d’accordo sugli obiettivi politici da perseguire. La seconda leggenda è che, con l’uscita del Regno Unito, aumenterà il ruolo e il peso politico dell’Italia in Europa. Il peso politico dell’Italia in Europa dipende solo dall’Italia e dagli italiani: non dai nostri partner, ma dal ruolo che intendiamo svolgere e dalla capacità di svolgerlo. Ricordo che fino a non molti anni fa l’Italia ha avuto la volontà e la capacità di contare in Europa e di contribuire efficacemente a scelte determinanti, senza la Gran Bretagna e spesso contro la Gran Bretagna: a Messina nel 1955, quando fu creato il mercato comune; a Stoccarda nel 1983, quando fu approvata la Dichiarazione Genscher-Colombo sull’unione politica; a Milano nel 1985, quando si decise di realizzare il grande mercato unificato; a Roma nel 1990, quando si avviò la moneta unica; e ancora a Roma nel 2004, quando fu approvato il Trattato Costituzionale, che ha costituito la base per la grande revisione organica dei trattati europei nel 2007.
Pubblicato su Lettere Diplomatiche n. 1266 – Anno MMXX Roma, 3 febbraio 2020