Fermare i barconi non elimina i migranti

di Giuseppe Cucchi

Affrontare il problema dei migranti cercando di fermare qualche barcone per ridurre il totale degli arrivi è un po’ come cercare di curare una malattia grave occupandosi solo dei suoi sintomi ed evitando di aggredirla alla radice. O come il tentativo del bambino olandese che provava a fermare l’inondazione inserendo un dito nel primo buco della diga da cui usciva l’acqua. Tentativi destinati a fallire o , se vogliamo essere più cattivi , iniziative destinate unicamente a dare ad una opinione pubblica spaventata dal cambiamento troppo rapido del proprio mondo l’impressione che si stia facendo qualcosa . Non si parla invece, o se ne parla troppo poco, dei due problemi che innescano questo flusso destabilizzante di persone destinato  , se non si assumono provvedimenti idonei , ad assumere nei prossimi anni le dimensioni di una crescente inarrestabile marea.

Ad alimentarlo concorrono infatti da un lato l’esplosione demografica di un continente che a metà del secolo avrà una popolazione quattro volte maggiore dell’Europa e decisamente più giovane , dall’altro il differenziale fra i redditi medi dei cittadini dei due poli , tanto alto da innescare inevitabilmente un processo a senso unico di vasi comunicanti. Le analisi serie restano quindi molto pessimiste per il futuro anche perché appare chiaro come l’Africa, qualora lasciata a se stessa , non riuscirebbe a far fronte da sola agli effetti negativi di questi due fattori concorrenti . Il continente ha così un disperato bisogno di assistenza e di aiuto , e ciò nonostante i grandi progressi che almeno alcuni dei suoi Stati hanno compiuto nel passato più recente e appaiono destinati a compiere anche nel prossimo futuro . Ci sono infatti conflitti africani che duravano da anni che appaiono ora sul punto di chiudersi.

Quello fra Eritrea ed Etiopia ad esempio , o quello fra le due etnie rivali del Sud Sudan . Si tratta di processi che se confermati consentiranno di dedicare allo sviluppo risorse considerevoli che prima venivano sprecate negli armamenti . Ci sono Stati che cominciano ad avere tassi di sviluppo di tutto rispetto , un risultato che implicitamente segnala anche un netto miglioramento della governance. Ci sono realtà nazionali , vedasi lo Zimbabwe , che hanno finalmente trovato la forza di liberarsi di storici tiranni o altri , come il Sud Africa , in cui la sostituzione del malgoverno al potere fa sperare in una migliore gestione del futuro . Ma soprattutto cresce la tendenza degli Stati africani a fare gruppo , ricercando soluzioni collettive ove non sia possibile elaborarne di individuali . Così il ricorso a forze di organizzazioni regionali per il mantenimento della pace si fa sempre più frequente , come e’ avvenuto in Mali , in Ciad , in Somalia , nella Repubblica Centro Africana . Nel frattempo la Organizzazione per l’Unita Africana vede crescere costantemente il proprio ruolo e imposta progetti che riguardano l’abolizione dei dazi e delle frontiere , la libertà di circolazione , l’adozione di una moneta unica , seguendo grosso modo il medesimo schema che fece a suo tempo la grandezza della Unione Europea.

Nonostante tutto questo però lo sforzo autonomo e non supportato da altri è destinato a dimostrarsi insufficiente e ciò nonostante il contributo che , sia pure indirettamente , viene dato alla crescita Africana da nuovi protagonisti esterni al continente. Benché indubbiamente connotate da forti elementi di neo colonialismo , le iniziative della Cina e degli Stati arabi del Golfo in terra Africana ( il ” land grabbing” , la corsa ad accaparrarsi i grandi progetti infrastrutturali , una presenza sempre più massiccia nel settore del commercio minuto ) hanno ed avranno comunque grandi ricadute sulle realtà locali. Ricadute che poi potranno ulteriormente ingigantirsi se il grande progetto cinese dello Silk Belt e Silk Road riuscirà a svilupparsi come progettato . Da questo quadro complessivo manca però , assurdamente , quella Europa che pur aveva avuto nel tempo una presenza ed una influenza costante nell’altro continente e che ancora rimane , nonostante tutto , il faro di riferimento cui gli africani istintivamente si volgono ogni volta che si ritrovano confrontati a difficoltà . Si , qualche cosa è stato fatto , qualche aiuto è stato deciso e sempre più si sta diffondendo la coscienza delle dimensioni e della gravità del problema comune . Si tratta però in ogni caso di iniziative inadeguate alla sfida macroscopica che dovremo affrontare . Sfida , tra l’altro , che rischia di divenire più grande e disperata ad ogni giorno che passa senza azione . Si è parlato più volte di un Piano Marshall per l’Africa , che dovrebbe convogliare e coordinare risorse africane , europee e -perché no anche cinesi e dei paesi del Golfo – verso uno sviluppo quanto più possibile accelerato del continente.

Ora è tempo di agire , di trasformare il pensiero in azione , di varare realmente questo piano! Magari rammaricandosi anche del fatto che in una visione del genere non possano rientrare sin dall’inizio anche gli Stati Uniti , momentaneamente persi nel risorgere di un egoismo semi isolazionista.

Ma forse domani……


* Contributo pubblicato sul quotidiano La Stampa del 26 giugno 2018. Qui riportato integralmente su gentile concessione dell’autore.