Uniti dal nemico

di Romano Prodi e Giuseppe Cucchi

La convergenza di interessi fra due antichi nemici che ha condotto di recente alla visita dell’erede designato al trono saudita, Principe Mohamed Bin Salman, a Tel Aviv costituisce uno splendido esempio di come le ragioni della realpolitik possano in tempi relativamente brevi sconvolgere equilibri da tempo consolidati, costringendo nemici storici a sedersi al medesimo tavolo.


Oltretutto si è trattato di una visita che, pur dovendo ufficialmente rimanere segreta, è stata in realtà abbondantemente pubblicizzata da fonti vicine ai due protagonisti, bin Salman da un lato e il Presidente Bibi Netanyahu dall’altro, così da dare l’impressione che forse più dei temi trattati, l’importanza dell’incontro consistesse nel messaggio che il fatto che esso fosse avvenuto trasmetteva ad amici e nemici dei due Paesi.

E di nemici l’Arabia Saudita ne ha veramente tanti in questo momento in cui la sua politica è divenuta più assertiva, mentre l’abituale linea successoria viene sconvolta dalla nomina a principe ereditario di un giovane dinamico che appare seriamente intenzionato a scuotere il Paese da quella specie di tradizionale abulia in cui l’avevano immersa decenni di gerontocrazia della famiglia Al Saud.


Inserita da tempo nel groviglio di guerre aperte, conflitti combattuti per il tramite di intermediari, rivoluzioni più o meno pilotate, rivalità feroci e fermenti religiosi sfocianti in un terrorismo divenuto endemico e tendente ad assumere forma statuale, essa ha finito col ritrovarsi immersa in pieno dei due confronti epocali che travagliano in questo momento il mondo islamico.


Il primo è quello che contrappone la movenza sciita e quella sunnita della religione.


Il campo sciita è dominato da un indiscusso campione, l’Iran degli ayatollah, che è riuscito negli ultimi vent’anni, con una politica accorta oltremodo favorita dalla caduta di Saddam Hussein – e quindi da un intervento americano che contro ogni desiderio o previsione degli USA si è risolto a suo favore – a estendere la propria influenza dalle provincie orientali dell’Afghanistan al Mar Mediterraneo. Per il momento l’insieme non ha continuità territoriale. Potrebbe però acquistarla se l’andamento della guerra siriana consentisse a Teheran di controllare in Siria quel territorio meridionale di collegamento fra Iraq e Libano verso cui puntano i soldati di Assad, Pasdaran e le milizie Hezbollah.


L’Iran è inoltre riuscito, al termine di lunghi negoziati, ad ottenere un accordo che in pratica congela la situazione del suo avanzamento verso la condizione di Stato nucleare. Un accordo che tanto Israele che l’Arabia Saudita, che considera l’Iran come il nemico più pericoloso, reputano del tutto insoddisfacente. E ciò benché Tel Aviv sia già potenza nucleare di rilievo e dei Sauditi si mormori di un accordo segreto che consentirebbe loro, in caso di estrema necessità, di accedere al nucleare pakistano.


Il campo sunnita appare invece molto più variegato di quello sciita e privo di un vero e proprio campione. O meglio, di potenziali campioni ne ha fin troppi, visto che ben tre colossi a tutti gli effetti del mondo arabo – Arabia Saudita, Egitto e Turchia – aspirano al titolo, mentre ad essi si affianca un quarto concorrente, il Qatar, che affida le proprie speranze soltanto ad uno strapotere economico gestito con particolare disinvoltura.

Col tempo la rivalità si è fatta scontro senza esclusione di colpi e il mondo arabo sunnita si è scisso in due campi, da un lato la Turchia, il Qatar e la Fratellanza islamica, presente e potente in parecchi paesi, dall’altro appunto l’Arabia Saudita, l’Egitto gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan ed altri che si riconoscono, sia pure in misura diversa l’uno dall’altro, nella leadership saudita.


In un tempo relativamente breve Riad si è trovata così coinvolta contemporaneamente su parecchi fronti, alcuni di guerra aperta come lo Yemen, altri di conflitto condotto per proxies come la Siria, altri di aperta anarchia come la Libia o di rivalità di opposti campi come il Libano, altri infine se non attuali almeno potenziali, come quello di un instabile Bahrein a maggioranza sciita ma governato da sunniti. Per non parlare poi di tutte le tensioni interne a uno schieramento non omogeneo e in cui la rivalità fra Egiziani e Sauditi resta forte.


Dietro a molte di queste emergenze i Sauditi identificano, probabilmente in parte a torto e in parte con ragione, la grande ombra di Teheran impegnata in un articolato programma a lunga scadenza e chiaramente espansionista.


È troppo in una volta sola, considerato anche come alle difficoltà esterne si sommino quelle interne al Paese, nonché le congiure di palazzo di una famiglia composta da cinquemila principi. Permane tuttora, inoltre, lo stato di guerra fra Israele e Arabia Saudita che non hanno mai firmato né una pace né una tregua. In queste condizioni, e visto che l’Iran costituisce indubbiamente per entrambi gli stati il maggiore dei problemi, perché non cercare un riavvicinamento con lo stato ebraico? Deve essersi chiesto il principe bin Sultan.


Una proposta che non poteva risultare sgradita neppure a Israele che ormai non considera più i sunniti come il rischio reale e avrebbe anzi bisogno del loro aiuto per fare accettare definitivamente ai Palestinesi-sunniti anche essi per la maggior parte e stanchi di guerra e di intifada – come la situazione delle colonie israeliane nei Territori occupati sia divenuta irreversibile. L’aspirazione dei Palestinesi ad uno Stato indipendente appare quindi definitivamente tramontata mentre per contrapposto potrebbe magari aprirsi in futuro quella di una progressiva integrazione nello stato ebraico. Anche a Tel Aviv inoltre l’Iran è visto come un vicino ostile, potente, scomodo, che sostiene Hamas ed Hezbollah, considerati entrambi quali avversari di tutto rispetto, rifornendoli costantemente di strumenti di morte da utilizzare contro Israele.

La convergenza degli interessi dei due paesi ha condotto quindi a questo primo incontro che deve essere stato più che altro esplorativo. Ci saranno ulteriori passi in avanti? È molto probabile, considerato come un eventuale accordo, raggiunto dai suoi maggiori alleati nella regione, rinforzerebbe anche gli Stati Uniti e il Presidente Trump, che hanno palesemente puntato sull’Arabia saudita come futuro leader di tutto campo sunnita e che in questo momento hanno un terribile bisogno di successi sulla scena internazionale.


* Contributo pubblicato sulla rivista “eastwest“, numero 74 (Novembre-Dicembre 2017). Qui riportato integralmente su gentile concessione degli autori.