Cara Italia, non sentirti il Peter Pan d’Europa
L’Italia è un paese strategico che rifiuta di esserlo. Dopo più di un secolo e mezzo, il nostro Stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus, fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte. Peter Pan della scena internazionale, in fuga da se stesso «perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei dovuto diventare quando fossi diventato uomo». Anelante le irripetibili liturgie del tempo ordinato, quando gli assi cartesiani della guerra fredda ci assegnavano il posto a tavola, risparmiandoci di sceglierlo. O fantasticante armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in fraternità con i vicini.
Fra l’essere e il non essere questo paese preferisce essere stato. Disposto a spezzarsi pur di non piegarsi alla necessità di partecipare allo strategico mercato della potenza sulla base dei propri interessi. Tutto, pur di non decidere. Siamo mina vagante. In caso d’esplosione, l’onda d’urto non investirebbe solo il nostro intorno ma toccherebbe assetti ed equilibri globali. Ciò per la massa critica della Penisola, determinata dalla collocazione geografica, dalle dimensioni economiche e demografiche e, non ultimo, dall’ospitare il centro di una religione a vocazione universale.
Cinque fattori misurano il rilievo dell’Italia e l’impatto delle sue (s)fortune sui protagonisti del teatro mondiale. In ordine di importanza.
Primo: qui si decide il futuro dell’euro. Siamo la quantità marginale che in caso di fallimento può determinare il collasso della “moneta unica”. Fattore determinante dell’interesse tedesco, francese e degli altri eurosoci ai destini italiani.
Secondo: attraverso lo Stivale filtrano i principali flussi migratori dalla giovane Africa alla vecchia Europa, che incidono sulla sicurezza, sulla stabilità, sull’identità stessa del nostro continente. Anche per questo a Berlino e dintorni siamo sorvegliati speciali.
Terzo: in quanto piattaforma logistica nel Mediterraneo restiamo rilevanti per Washington, come testimonia la crescente presenza di truppe e di basi a stelle e strisce – depositi di bombe atomiche e centri di intelligence inclusi – pur dopo lo scadere della minaccia sovietica che inizialmente le legittimava.
Quarto: siamo contemporaneamente utili a Mosca, nemico d’elezione dell’America, non fosse che per la nostra incomprimibile russofilia, insieme culturale e commerciale, trasversale alle ideologie politiche. Visti dal Cremlino, siamo quanto meno un simpatico granello di sabbia nel meccanismo atlantico. Per la Casa Bianca, al converso, un socio da tener d’occhio, soprattutto in quanto ci ostentiamo spontaneamente fedeli né pretendiamo qualcosa in cambio di tanto amore. La geopolitica del dono è esclusiva specialità italiana. Non possiamo sorprenderci se altri – sbagliando – vi intravvedono ascendenze machiavelliche.
Quinto: l’Italia è infine all’attenzione della Cina perché al centro del Mediterraneo, dunque titolare potenziale del primo attracco utile nei traffici marittimi Asia-Europa. Collocazione ideale nella trama delle nuove vie della seta, ovvero della “globalizzazione alla cinese”, espressa oggi sotto specie commerciale, domani forse in veste compiutamente geopolitica. Tale vantaggio posizionale diventerebbe concreto se l’Italia scegliesse finalmente un porto gradito ai cinesi su cui imperniare gli scambi sino-europei, spostandone il baricentro verso sud.
Germania, Francia, Stati Uniti, Russia, Cina: il catalogo delle potenze cui interessiamo e sulle quali possiamo quindi influire è invidiabile. Ma per passare all’incasso nel mercato geopolitico occorre elevare il valore d’uso a valore di scambio. Ciò significa saper valutare il proprio patrimonio strategico, materiale e immateriale, in rapporto a come viene percepito dagli attori più potenti. Per varcare la linea d’ombra dobbiamo emanciparci dall’idea che il nostro interesse nazionale consista nel non averne, salvo aderire a quello, tra gli altrui, che ci pare prevalente.
La storia corre e non aspetta l’Italia. Attendere che mamma America o papà Germania decidano per noi significa rimetterci ai loro interessi, che spesso non coincidono e talvolta collidono con i nostri. Oppure, in alternativa, alla loro mancanza di attenzione, che ci abbandona alle conseguenze della nostra irresponsabilità. Se poi, come ora, Washington e Berlino divergono, il cielo sopra Roma si oscura. Non c’è più nulla di scontato né di automatico. Serve stabilire la nostra rotta. Coscienti dei rischi che corriamo in caso di fallimento. Ma possiamo farlo? O forse ne siamo impediti da qualche presunto destino?
L’Italia deve venire a patti con la realtà. Chiudere la forbice fra oggettivo rilievo e carenza di soggettività. Costituirsi in attore geopolitico, che come ogni altro, non importa se grande o piccolo, protegge i propri interessi nella competizione e nel compromesso con gli interessi altrui. Nulla di straordinario: la norma delle relazioni internazionali. Pretendersi Stato per farsi eterodirigere da altri Stati, i quali correttamente perseguono le loro priorità, questa sì è impresa eccezionale.
* Testo estratto dall’editoriale del volume di Limes n. 4/2017 “A chi serve l’Italia”