Sul caso di Giulio Regeni, l’Italia ha sbagliato tutto

di Giuseppe Cucchi

Sino a prova contraria la politica è, o almeno dovrebbe essere, “l’arte del possibile”, di individuare cioè quali risultati in linea con differenti orientamenti esistenziali sia possibile conseguire in determinati momenti storici con i mezzi a disposizione ed a dispetto degli ostacoli che si frappongono fra noi ed il risultato.
Da un lato, il lato dei principi e dei valori che la ispirano e che debbono rimanere l’orientamento costante da cui non deflettere nei momenti più duri, essa è quindi puro ideale. Dall’altro però sconta con un maturato realismo la necessità giornaliera di volare sempre più o meno all’altezza del terreno, pena la rinuncia a traguardi che si potrebbero conseguire e quindi la sottrazione, proprio a quel popolo che la politica serve, di possibilità e beni di cui esso avrebbe potuto usufruire se le cose fossero state gestite con maggiore oculatezza.Vista in questa maniera la politica diviene in definitiva un perenne confronto /scontro fra idealismo e realismo, una costante ricerca di un punto di equilibrio che possa soddisfare i nostri principi senza scendere al di sotto della linea rossa e nel contempo permetterci di conseguire almeno parte di quelli che sarebbero stati i risultati ottimali.
A ben guardare, la politica è quindi anche l’arte del compromesso, un compromesso in cui a volte parte dei principi sono sacrificati alla realtà delle cose, mentre altre volte ad essere sacrificato, questa volta sull’altare di valori e principi, è parte di quell’utile che una visione più spregiudicata delle cose avrebbe reso conseguibile. Il massimo errore che si può compiere è così quello di arroccarsi su posizioni di principio, mirando soltanto a mantenersi puri e duri, a preservare l’integrità di una linea di condotta, a premiare solo l’ideale scordando la realtà, o viceversa a privilegiare unicamente il realismo a scapito di ogni altra considerazione.

Premessa forse un po’ lunga, ma indispensabile qualora si voglia compiere un esame equilibrato del cosiddetto “Caso Regeni”, nonché degli avvenimenti che si sono succeduti da quando il corpo martoriato del giovane ricercatore universitario italiano è stato rinvenuto ai margini della autostrada che congiunge Il Cairo ad Alessandria. Si tratta infatti di una vicenda che, al di là della tragica dimensione umana, ha indubbiamente anche un lato politico, considerato come le sue ricadute abbiano inciso ormai da alcuni mesi sulle relazioni tra due paesi, l’Italia e l’Egitto, producendo conseguenze negative di cui entrambi sono stati costretti ad accollarsi il non indifferente onere.
Chiarissima é stata tra l’altro in questa particolare occasione la contrapposizione fra una valutazione ideale, che imponeva a noi italiani di schierarci con compattezza a fianco di una famiglia che giustamente pretendeva non le fosse negata la verità sul calvario di un figlio, nostro concittadino, ucciso con barbarie inaudita, e le considerazioni di carattere pratico che ci suggerivano invece di cercare di proteggere quanto più possibile un rapporto internazionale consolidato da decenni, di grande importanza per il nostro paese e da cui entrambe le parti avevano sempre ricavato considerevoli utili. Si trattava quindi di uno di quei classici momenti in cui la politica avrebbe dovuto esercitare con avvedutezza la sua funzione mediatrice, rilanciando da un lato l’indagine allorché essa dava segno di languire ma mantenendosi nel contempo pronta a temperare ogni eventuale eccesso. Purtroppo però vi sono stati sin dall’inizio alcuni fattori che hanno sconvolto quello che sarebbe stato l’ordinato andamento delle cose, trasformando rapidamente l’intera vicenda in un nodo gordiano difficile, se non addirittura impossibile, da sciogliere.

Il primo è indubbiamente consistito nella velocità eccessiva con cui la delegazione industriale italiana che si trovava in quel momento al Cairo ha abbandonato più o meno all’istante l’Egitto appena si è avuto notizia dell’assassinio, sospendendo immediatamente i colloqui già in corso. Si è trattato di un gesto che è suonato come una pubblica condanna della controparte, quasi esistessero prove sicure che per il momento non si volevano rendere pubbliche ma che pure permettevano di individuare senza alcuna ombra di dubbio i responsabili del delitto.
Peggio ancora: il fatto che la reazione italiana fosse una reazione governativa e che essa incidesse su una attività che coinvolgeva i due governi fece subito pensare che le responsabilità egiziane potessero essere responsabilità ufficiali e che l’unico interrogativo rimasto fosse quello sui nomi ed il livello dei personaggi egiziani responsabili e dell’assassinio del povero Regeni e del successivo tentativo di occultamento del suo cadavere. Il baratro creato da questo iniziale passo falso fu poi rapidamente ingigantito dalla corale campagna montata dalla stampa italiana, centrata su decine di inviati speciali privi della minima esperienza di paesi arabi scaraventati al Cairo con l ‘ordine di ricostruire le ultime giornate del giovane ricercatore, arricchendo oltretutto ogni servizio di particolari inediti capaci di distinguerlo da quelli delle altre testate. Cosa che essi hanno fatto puntualmente, riuscendo nel giro di meno di una settimana a creare il classico mistero alla italiana, in cui non si ricerca più la verità ma in cui esiste a priori una verità accettata come tale che deve essere assolutamente dimostrata e che nessuno può più permettersi di discutere o porre in forse.

Il secondo fattore fu poi l’atteggiamento assunto nei riguardi dell’Egitto e della sua classe dirigente, che venne criminalizzata sin dall’inizio fino al livello più elevato, dando per scontati coinvolgimenti e responsabilità che invece scontati non erano affatto. Il gioco risultò abbastanza facile poiché nelle affermazioni si partiva da una verità incontestabile, cioè che il paese fosse retto con mano di ferro e con leggi da stato di emergenza che incidevano in maniera pesante sui diritti del singolo e sulle libertà individuali, per poi trarne la deduzione, tutta da dimostrare ma enunciata anche essa come vera, che ogni decisione in merito al caso Regeni fosse stata adottata con l’approvazione del Presidente Al Sisi, o perlomeno fosse stata tempestivamente portata a sua conoscenza. Un fatto che da un certo momento in poi è certamente avvenuto, considerato il rilievo internazionale progressivamente assunto dal caso, ma che almeno nelle sue prime fasi risulta, se non incredibile, perlomeno altamente improbabile. Anche le varie inchieste indipendenti, chiamiamole così, condotte dalla nostra stampa non sono infatti riuscite a risalire oltre la presunta responsabilità di ufficiali di livello elevato della Polizia di Giza.

Si è preteso inoltre, è questo è il terzo punto, che la giustizia del Cairo si muovesse con una rapidità ed una efficacia che anche la nostra è ben lungi dall’avere ma che con innegabile faccia tosta noi pretendiamo regolarmente da quelle degli altri. Vedasi a riguardo anche l’esemplare caso dei nostri due marinai incriminati in India. Si sono inoltre pesantemente sottovalutate le difficoltà che possono esserci nell’interfacciare un sistema giuridico come l’italiano , di matrice romano /napoleonica, con quello egiziano, che è invece coranico/anglosassone. Il mancato rispetto dei tempi che avevamo cercato di imporre alla controparte ci ha così condotti a metterne anche pubblicamente in dubbio quell’affidabilità e quella sostanziale indipendenza dalla politica che invece sono universalmente riconosciute alla magistratura egiziana. Si è trattato di un errore che ha rischiato di incidere fortemente sulle indagini e che soltanto adesso che i dati richiesti iniziano ad affluire dall’Egitto viene piano piano corretto.

Inoltre, quarta osservazione, ci siamo limitati a constatare quanto era successo ed a cercare di scoprire chi ne fosse responsabile senza mai veramente approfondire perché quanto era successo fosse successo. In altre parole non abbiamo mai cercato di chiarire la vera natura della missione che lo sventurato ricercatore svolgeva al Cairo, evitando di domandarci, quasi si trattasse di una cosa disonorevole, se Regeni fosse, coscientemente o meno, una spia dell’MI6, il Servizio di spionaggio esterno del Regno Unito inviato ad approfondire i rapporti del potere egiziano con quei sindacati indipendenti che il Governo del Cairo considera pericolosi per la stabilità nazionale. La reticenza e l’iniziale rifiuto di rispondere alle domande della nostra giustizia da parte della Professoressa che fungeva da riferimento per la ricerca di Giulio presso l’Università di Cambridge (da sempre il maggior polo di reclutamento di MI5 ed MI6, i due principali Servizi inglesi ) sembra tra l’altro confermare – ora che finalmente ci si è mossi in quella direzione dopo aver perso parecchio tempo prezioso – che possano effettivamente esistere delle responsabilità che il Regno Unito e l’Università non vorrebbero assumersi pubblicamente ma che potrebbero avere condizionato sin dall’inizio in maniera negativa l’intera vicenda.

Infine non è stata prestata sufficiente attenzione alle palesi incongruità di un episodio in cui il corpo di una vittima, che il locale regime avrebbe tutto l’interesse a far sparire, viene invece ritrovato, e per di più proprio nel momento in cui è in corso una visita italiana di altissimo livello, ai margini di quella Cairo -Alessandria che è probabilmente la strada più trafficata di tutto l’Egitto. Cioè proprio dove si poteva essere ben sicuri che sarebbe stato rapidamente reperito, un fatto che si configura come una inspiegabile assurdità da parte di chi aveva a disposizione una buona porzione del Sahara per far eventualmente sparire ogni traccia di Regeni. Altrettanto assurdo appare poi il tentativo, che ha luogo qualche giorno dopo, di imputare dell’assassinio alcuni delinquenti comuni, esibendo come prova documenti ed effetti del ricercatore reperiti secondo la versione ufficiale della Polizia di Giza nella abitazione degli assassini. In un certo senso è come se nel caso fossero state pressoché contemporaneamente in azione due squadre diverse, contrapposte l’una all’altra in quanto perseguivano obiettivi differenti: la prima, responsabile della tortura e della uccisione del ragazzo, intenzionata a far rapidamente sparire ogni prova del delitto; la seconda invece che tenta di portarlo con ogni mezzo alla attenzione della opinione pubblica mondiale.

A quale fine? Si tratta di una domanda che può avere una risposta duplice.

Da un lato possiamo infatti trovarci di fronte alla rivalità feroce, ed alla conseguente lotta intestina, fra due diverse fazioni del regime egiziano in contrasto fra loro per il predominio. In questo caso i naturali candidati all’identificazione sarebbero il Ministero dell’Interno egiziano da cui dipendono, oltre che la Polizia, anche i Servizi di informazioni generali (il Muhabarat) ed il Ministero della Difesa, che gestisce invece i Servizi Militari (Military Intelligence ) cresciuti notevolmente di potere e competenze nell’era El Sisi. Non è forse un caso che nelle dichiarazioni rilasciate poco dopo l’inizio della vicenda il Ministro degli Interni egiziano abbia escluso ogni responsabilità, riferendosi però unicamente al suo Ministero, sfumatura che in ambito italiano non è stata adeguatamente recepita.
D’altro canto il tutto potrebbe anche essere opera di servizi stranieri intenzionati a guastare le relazioni particolarmente buone fra l’Italia e l’Egitto. In vista di cosa? Di interessi commerciali molto forti, magari, ed il pensiero va al grande giacimento che l’ENI ha da qualche tempo scoperto in Egitto nonché alla sinistra nomea delle cosiddette “sette sorelle” del petrolio, colpevoli probabilmente di averci sottratto a suo tempo anche Enrico Mattei.
Oppure a motivi di interesse strategico connessi al fatto che Egitto ed Italia allineati su una medesima visione politica sarebbero probabilmente in condizione di ricondurre ad unità la Libia. Una ipotesi che darebbe molto fastidio ad una serie di paesi arabi, schierati per la partizione, nonché ad alcuni paesi europei che ancora considerano questa parte del nord Africa come una palestra per scontri di influenza di gusto post coloniale. Il risultato finale di questa serie errori, valutazioni affrettate, provvedimenti inopportuni, dichiarazioni troppo precipitose rilasciate sotto la spinta di una opinione pubblica cui occorreva assolutamente fornire un colpevole – e subito! – è stato il crollo delle relazioni fra i due paesi e la perdita di una posizione di assoluto rilievo politico ed economico che l’Italia si era pazientemente costruita in Egitto con decenni di faticoso ed efficace lavoro. In un colpo solo, non curandoci di salvaguardare quel giusto equilibrio fra idealismo e realismo che dovrebbe essere l’essenza stessa della politica, ci siamo così procurati un danno le cui dimensioni si cominciano appena ad intravedere.

Sul piano delle relazioni internazionali infatti il nostro rapporto con l’Egitto, che come già accennato era stato per decenni la nostra controparte preferita sull’altra sponda mediterranea, è ora un rapporto estremamente teso, al punto da sfiorare quasi il livello di conflittualità. Si tratta di una situazione che si è tra l’altro ulteriormente aggravata dopo la decisione italiana di cancellare il previsto passaggio dall’Italia all’Egitto di ricambi per vecchi aerei militari che noi non avevamo più in servizio ma che il Cairo mantiene ancora in linea. Si è trattato di un atto puramente simbolico, considerato come tale cessione rivestisse carattere gratuito e non fosse assolutamente indispensabile alla controparte che può reperire gli stessi materiali presso molti altri potenziali fornitori. Il diniego è stato però fortemente pubblicizzato in Italia ed ha suscitato di conseguenza indignate reazioni da parte dell’Egitto che lo ha considerato come uno schiaffo diplomatico, e per di più pubblicamente impartito.
Ciò che infatti ci rimproverano maggiormente gli egiziani è di avere fortemente contribuito, con il nostro comportamento nel caso Regeni preso nel suo complesso, a danneggiare agli occhi della opinione pubblica mondiale tanto l’immagine del paese quanto quella del suo Presidente. Contribuendo tra l’altro in tal modo anche ad accrescere per riflesso l’instabilità interna di un regime e di un paese che si considerano a rischio di destabilizzazione poiché in guerra contro l’estremismo islamico. Si tratta di una accusa cui è molto difficile ribattere e perché essa contiene molti elementi di verità e perché una risposta articolata implicherebbe valutazioni che risulterebbero certamente sgradite alla controparte. Conducendoci tra l’altro molto lontani da quel realismo che ci impone di riconoscere come, pur essendo ben lontano dalla perfezione, il regime di El Sisi sia indubbiamente il meglio che l’Egitto può offrire in questo momento.
Il deterioramento delle relazioni politiche con l’Italia ha poi la conseguenza, di cui già si è fatto parzialmente cenno, di rendere impossibile ai due paesi di operare insieme per una soluzione della crisi libica che preveda la riunificazione di quel martoriato paese. Così noi continuiamo ad appoggiare Saraj ed il governo di Tripoli, mentre il Cairo non lesina appoggio politico e militare al Genrale Haftar, braccio armato della fazione di Tobruk. Il conflitto nel frattempo si eternizza ed una sua ricomposizione diviene sempre più improbabile.
Vi è inoltre da considerare come l’allontanamento dall’Italia abbia contribuito ad accelerare un trend di ravvicinamento alla Russia della politica egiziana. Trend che già esisteva certamente in embrione ma che le reazioni nazionali sul caso Regeni, unite a quelle di una Unione Europea da noi sollecitata, hanno certamente accelerato. È così di pochi giorni fa la notizia che a partire dal 15 di ottobre un battaglione di paracadutisti russi parteciperà ad esercitazioni congiunte con le Forze Armate egiziane. Il terreno di esercitazione e’ stato probabilmente scelto con valenza simbolica. Si tratta infatti dell’area di El Alamein che verrà interessata dalle manovre proprio nel periodo dell’anniversario della grande battaglia, allorché ufficiali di quasi tutti i paesi NATO affluiranno ai grandi Sacrari della zona per le celebrazioni. Forse si tratta di una coincidenza …ma non bisogna farci molto conto, considerato il modo in cui di norma gli arabi convogliano i loro messaggi.

Dal punto di vista economico – commerciale, ci sono poi due punti da considerare.

Il primo riguarda l’interscambio fra i due paesi, che ci poneva in precedenza ai primi posti fra i paesi importatori ed esportatori da e per l’Egitto e che invece appare attualmente molto rallentato.

Il secondo il fatto che il Canale di Suez è un passaggio obbligato di quella rotta della “via della seta “che con un grandioso progetto su scala mondiale i cinesi vorrebbero ora riattivare e potenziare e che dovrebbe avere come suoi estremi navali Tien Tsin, il porto di Pechino, da un lato, e dall’altro almeno idealmente Venezia, con l’Adriatico destinato quindi ad essere utilizzato come porta di ingresso dell’Europa. Un progetto la cui realizzazione può essere possibile soltanto se la concordia regna fra tutti i pezzi contigui del lunghissimo domino.

Un accenno infine, ed un accenno soltanto, anche al problema delle migrazioni dal Nord Africa verso l’Italia ed al modo in cui esso potrebbe divenire rapidamente ingestibile se oltre a partire dalla Libia i barconi che trasportano i migranti potessero salpare senza intralcio anche dalle coste egiziane. O, peggio ancora, a che cosa potrebbe accadere se il regime incoraggiasse una politica di migrazione clandestina in un paese che soffre di povertà e di disoccupazione endemiche e dove una popolazione per grandissima parte giovane e pari per entità a circa la metà della popolazione dell’intero mondo arabo è concentrata nella sovraffollata area irrigata dal Nilo. Un assaggio di questa potenziale catastrofe lo abbiamo già avuto questa estate, allorché i barconi egiziani si sono sommati a quelli libici, sia pure in numero ancora molto ridotto rispetto alla potenzialità. E forse anche in questo caso si è trattato di un messaggio trasmessoci in maniera indiretta, nel consueto stile arabo!
È dunque opportuno, in conclusione, accettare tempi un poco più lunghi di quelli che vorremmo per ila soluzione del caso del nostro ricercatore, riprendendo nell’attesa una politica di giusto equilibrio. Che risulti molto meno condizionata da ondate di sentimento generate per via mediatica e che tenga più conto, pur nella salvaguardia dei principi e dei valori, degli interessi reali del paese. Che accetti, quando ciò si rivela indispensabile, l’idea che allorché non si può assolutamente avere di più, allora conviene accontentarsi di ciò o di chi appaia in quel momento come il minore dei mali possibili. Che si muova con precauzione ed a ragion veduta, facendosi guidare esclusivamente dalla ragione. Che sappia guardare sempre lontano e programmare di conseguenza, senza pretendere soluzioni immediate con un timing magari condizionato da scadenze elettorali locali. Che rispetti sempre le controparti, cercando di tener conto del fatto che il loro modo di ragionare può essere ben diverso dal nostro e le loro azioni particolarmente difficili da comprendere.
È tempo insomma che la nostra politica internazionale cessi di suicidarsi, come ha fatto in questa fase iniziale del caso Regeni, ritornando ad essere quella grande politica che a volte, ma purtroppo soltanto a volte, siamo stati capaci di esprimere.


* Pubblicato su Limesonline in data 21/10/2016