La Sindrome di Versailles

di Lucio Caracciolo

– AMERICA E RUSSIA SONO IN GUERRA. CERTO NON DIRETTA NÉ TOTALE Ma nemmeno nuova guerra fredda, come pretende l’opinione corrente. Piuttosto, scontro asimmetrico senza spargimento di sangue proprio ma con ampia effusione di quello altrui – rispettivi ascari compresi – nei teatri indiretti di battaglia, quali Siria e Ucraina. Con intenso bombardamento di propaganda, accompagnato da duelli di spionaggio e disinformazione specialmente accesi nelle profondità del Web, a investire beni materiali e immateriali, persino le Olimpiadi e i Mondiali di calcio. Guerra ibrida, secondo il vago marchio caro agli strateghi. Conflitto irregolare che Washington e Mosca contano di gestire, scongiurandone la degenerazione in partita aperta, a rischio di olocausto nucleare. Di che guerra si tratta? Per carpirne la tecnica, conviene riprendere in mano un aureo libretto cinese: Guerra senza limiti. – Lo scrissero quasi vent’anni fa due inventivi colonnelli dell’Esercito popolare, Qiao Liang e Wang Xiangsui.  Per i quali viviamo l’epoca del caos strutturato, descrivibile con la metafora dei frattali. Le guerre tradizionali, intese come collisione simmetrica di masse contrapposte, secondo eleganti movenze euclidee, sono storia. Combattere «senza limiti» significa rompere le regole e i tabù che separano il militare dal civile, le armi dalle non-armi, gli ordigni ipertecnologici delle maggiori potenze dalle bombe umane del terrorismo suicida. La guerra dalla pace. Il limes che le separava è caduto. La pace apparente cela la guerra: fiume carsico che sbocca improvviso in superficie spargendo orrore e distruzione, salvo reimmergersi per lunghi intervalli, nei quali la conflittualità non sarà mai del tutto sedata. Il suo percorso sarà forse evidente allo sguardo postero dello storico venturo, molto meno alla percezione dello stratega d’oggi, immerso nel surplus d’informazione eccitato dalle nuove tecnologie comunicative.

I colonnelli cinesi derivavano la loro tesi dal terrorismo islamista, modello di guerra senza limiti, contro il quale la panoplia bellica della superpotenza Usa, accecata dalla superiorità tecnologica, si sarebbe svelata inservibile. Anticipando l’attacco alle Torri Gemelle, annotavano: «Un bel mattino la gente si sveglierà per scoprire con sorpresa che alcune cose gentili e carine hanno cominciato ad assumere caratteristiche offensive e letali» 2. Quell’approccio sovversivo della cultura strategica stabilita, non solo in Occidente, potrebbe rivelarsi altrettanto profetico se applicato allo scontro fra Stati Uniti e Federazione Russa. Ma la taglia geopolitica e militare dei due contendenti è tale per cui il deragliamento della loro competizione verso lo scontro «fuori tutto» ridurrebbe la memoria dell’11 settembre – l’evento più sopravvalutato della storia contemporanea – a deprecabile episodio di cronaca nera. Di tanta minaccia sono consapevoli le élite più avvertite in Russia, in America e nel resto del mondo. Allo stesso tempo, i decisori politici – mai tanto screditati, almeno in Occidente – sembrano mutarsi in osservatori, quasi fossero rassegnati all’impossibilità di governare i meccanismi della competizione che hanno contribuito a scatenare. Quanto ai militari, sono divisi fra interesse di gilda – quando tira aria di guerra, piovono soldi e cresce lo status – e consapevolezza di chi, professionista delle armi, valuta le incognite belliche con cognizione di causa. Nessuno vuole la guerra aperta, salvo qualche pazzo o avventuriero, convinto di vincerla. Quasi tutti sperano che alla fine prevalga l’istinto di conservazione, figlio della razionalità. Ma follia e caso hanno mille volte infranto i canoni della logica. Sicché l’allarme si diffonde su entrambi i fronti e investe la comunità degli analisti, ovvero di quei rabdomanti che per talento e vocazione dovrebbero scandagliare le tettoniche strategiche per tracciarne le probabili derive, nell’ambizione quasi sempre insoddisfatta di educare i decisori. È il caso di Sergej Karaganov e George Friedman, che da opposti punti di vista segnalano il medesimo rischio. Per il primo, siamo in modalità prebellica da otto anni, ovvero dalla guerra di Georgia, quando già «la fiducia fra le grandi potenze tendeva allo zero». E «la propaganda che circola adesso ricorda il periodo che precede una nuova guerra» 3. Stando a Friedman, «l’ultima volta che il mondo aveva questo aspetto era alla vigilia della seconda guerra mondiale». Peggio: «Il pericolo maggiore è che apparentemente non vi sono soggetti capaci di arrestare» le crisi e i conflitti sempre più intrecciati che coinvolgono le maggiori potenze, dal Medio Oriente all’Ucraina o ai mari cinesi .

Il convergente allarme degli analisti russi e americani che nelle fasi critiche contribuiscono ad alimentare le diplomazie parallele o segrete si esprime nel rapporto Che cosa rende possibile la guerra fra grandi potenze, pubblicato nell’aprile scorso dal Club Valdaj –gruppo di discussione alimentato da Mosca, nel quale esperti occidentali si confrontano con gli omologhi russi e con i dirigenti del Cremlino, Putin incluso 5. Firmato da Michael Kofman, del Wilson Center, e Andrej Sušencov, direttore della fondazione che gestisce il Valdaj, il documento statuisce: «La probabilità di una guerra fra grandi potenze continua a crescere nell’attuale ambiente internazionale, e soprattutto preoccupa l’alta probabilità che possa emergere in modo inatteso» (tondo nostro, n.d.r.)» 6. Inoltre, «un conflitto sarebbe difficilmente localizzato, giacché a provocarlo serve da subito un’escalation orizzontale e verticale, in modo da assicurare il successo di questa o quella potenza» 7. Sintomi della minaccia sono l’inclinazione a ricorrere più facilmente alla forza, tanto che «il mondo deve di nuovo preoccuparsi di rilevanti conflitti fra Stati» ,alimentati «da nuove capacità militari». Echeggiando i colonnelli cinesi, il gruppo di lavoro russo-americano osserva «una chiara tendenza ad allontanarsi dalle regole di guerra in senso stretto o dall’esistenza di qualsiasi tangibile separazione fra pace e guerra» . Anche perché il campo di battaglia si è esteso allo spazio, al cyberspazio, all’intero spettro elettromagnetico. I primi bersagli della grande guerra saranno le infrastrutture elettroniche di comando e controllo, quelle energetiche, finanziarie e di informazione (a cominciare dai cavi sottomarini di Internet). Conclusione: «È certo che per vincere, anche in una conflagrazione regionale, le grandi potenze dovranno distruggere parti importanti del mondo moderno da cui tutti gli Stati dipendono. Sicché ogni conflitto produrrà smisurate conseguenze globali» .

A prima vista, lo scontro fra americani e russi è paradossale.Gli Stati Uniti non saranno la Roma augustea che immaginavano di replicare prima di imbarcarsi nella «guerra al terrorismo», ma restano la prima potenza militare, culturale, tecnologica ed economica, con una dote di soft power che la propaganda russa non può scalfire (spesso è talmente maldestra da nutrirla). L’incolmabile divario di risorse esclude la vittoria della Russia in qualsiasi guerra guerreggiata, aperta e diretta, anche se gli Stati Uniti e il resto del mondo pagherebbero un prezzo altissimo se si varcasse la soglia nucleare. Per intuire il senso strategico della contrapposizione russo-americana, serve esplorarne radici e ramificazioni geopolitiche, sgombrando il campo dall’equivoco della «nuova guerra fredda». Cominciamo di qui, esaminandone le principali differenze con il confronto bipolare Usa-Urss maturato verso lo scadere della seconda guerra mondiale e destinato a ritmare la politica internazionale fino al 1991.

 A) La guerra fredda originale era ordine mondiale incardinato su due poli. Pace stabile fondata sull’equilibrio del terrore. Contrapposizione simmetrica tra blocchi geopolitici (Est contro Ovest), ideologici(comunismo contro liberaldemocrazia), economici (capitali-smo contro pianificazione). In sintesi, morali: Bene contro Male. L’Europa divisa, in quanto posta principale del confronto, era protetta dal rischio di guerre regionali o locali, pur restando esposta all’alea dell’apocalisse atomica. 

A’) La «nuova guerra fredda» esprime il disordine su scala globale. Spariti i blocchi – la Nato residuale non ha molto a che vederecon quella precedente al suicidio del Nemico – morte le ideologie e le grandiose filosofie della storia che le sostenevano, esaurito il fascino dei Gosplan, piuttosto avventurosa l’identificazione di qualsiasi parte con il bonum per se. Il che non esclude il troppo umano gusto di demonizzare l’avversario. L’Europa «riunita» (si fa per dire) ha sperimentato la guerra appena scaduto il contesto bipolare – implosione della Jugoslavia – e ancora oggi nell’Ucraina orientale, dove russi e americani si sfidano per interposte oligarchie mafiose e milizie locali.

B) C’era una volta l’Unione Sovietica, che perse la guerra fredda per getto della spugna (affrettato, lamenta Putin). Una superpotenza certo sopravvalutata dalla propaganda a stelle e strisce, ma di stazza sufficiente a reggere per quasi mezzo secolo il confronto con gli Stati Uniti. Dotata di un’ideologia universalista utile a far valere i propri interessi imperiali, a mobilitare masse, élite e spie in ogni angolo del pianeta.

B’) La Federazione Russa non è l’Unione Sovietica in formato ridotto, come questa non era la continuazione dello zarismo con altri mezzi. Non in termini spaziali, non quanto a potenza militare ed economica, non per disponibilità di colonie (anche se il Patto di Varsavia fu più problema che risorsa) o di sfere d’influenza transcontinentali, che un tempo si estendevano dalla Cina a Cuba. La Russia attuale è un torso, un non-finito in cerca d’identità, in strutturale sofferenza economica e demografica. Meno multietnica dell’Urss, ma non classico Stato nazionale, con un buon quinto dei «compatrioti» (russi etnici o classificati tali) sparsi nei paesi vicini. Infine e per conseguenza, Putin non è il segretario generale del Pcus e nemmeno lo zar, anche se ci piace bollarlo così. È l’amministratore delegato di un’oligarchia cui deve rispondere e dalla quale prima o poi sarà revocato, sotto forma di «spontanea» o necessitata rinuncia.

C) La guerra fredda aveva i suoi codici condivisi. Grammatiche e sintassi geostrategiche erano speculari quindi decifrabili dai responsabili sovietici e statunitensi. I rischi d’incomprensione, quindi di irreparabili incidenti, erano esigui, pur se mai del tutto eliminati. Se Khrušchëv doveva erigere un muro a Berlino non aveva bisogno di interrogarsi troppo sulla replica di Kennedy, perché sapeva che la Casa Bianca non avrebbe risposto con le armi. Se un presidente degli Stati Uniti doveva provocare o tollerare un 12 colpo di Stato antico-munista nei suoi domini euroccidentali o latino-americani, sapeva che la replica sovietica si sarebbe risolta al peggio in eruzione retorica, quando non in sorriso compiaciuto per l’eliminazione di pericolosi «dissidenti».

C’) Oggi Casa Bianca e Cremlino si capiscono poco e male. Non è solo la reciproca insofferenza fra Obama e Putin. È che sono esaurite le simmetrie ma non le memorie ostili. Negli anni Novanta del secolo scorso, Clinton considerava la Russia entità trascurabile, forse avviata ad approssimare il paradigma liberaldemocratico aderendo alla «globalizzazione» in salsa americana. A quei tempi, otto russi su dieci sognavano California. Oggi i filoamericani in Russia sono razza protetta, più dei filorussi in America. Dove specie dopo il ratto della Crimea gli stereotipi sull’Orso russo (rosso) sono merce mediatica dilagante. Nello scontro asimmetrico attuale, infine, ognuno gioca la sua partita quasi al buio, senza riuscire a mettersi nella testa e nel cuore dell’avversario. Spesso nemmeno sforzandosi di farlo. Il rischio di slittamento dalla guerra non apertamente guerreggiata allo scontro pieno e diretto è moltiplicato dall’incapacità di leggere le linee rosse dell’avversario.

D) Nel mondo bipolare erano possibili, anzi necessari, conflitti locali indiretti, non passibili di degenerare in guerra totale. Le guerre per procura erano esibizioni di forza, palestre di sfogo per gli Stranamore nei due campi.

D’) Nell’incertezza post-bipolare, fra medie potenze troppo ambiziose e Stati in decomposizione, mentre proliferano gli attori informali e i terroristi, alcuni conflitti locali tendono a espandersi per gemmazione, infiltrandosi in territori contermini, altri si trasformano in guerre mondiali indirette (per entrambi i casi, vedi alla voce Siraq), nei quali i procuratori esterni sono spesso manipolati dai loro presunti clienti interni. Il fenomeno riguarda specificamente Russia e America – per informazioni rivolgersi a Kiev o a Damasco. Di qui due provvisorie conclusioni. Primo: non stiamo affatto riprecipitando nella guerra fredda, se non nel senso di Mark Twain (o chi per lui): «La storia non si ripete, ma fa spesso rima». Secondo: la nostalgia della guerra fredda non è frivolo dandismo, semmai computazione gelida delle garanzie di allora appetto ai rischi attuali. Almeno per noi europei ex occidentali.

3. La partita russo-americana verte sull’Eurasia. Decisiva massa continentale, scossa nell’ultimo quarto di secolo da sismi geopolitici che ne stanno scomponendo e ricomponendo il profilo, specie lungo il Rimland arabico-mediorientale e asiatico-pacifico (conflitti tra Golfo e Levante, contese nel Mar Cinese Orientale e soprattutto in quello Meridionale, acuta crisi intercoreana, ravvivata ostilità indopakistana). Mentre riemergono le ambizioni della Cina, che intersecano i vettori geopolitici americani e russi. Dell’Eurasia Stati Uniti e Russia coltivano idee opposte ma non omologhe. Per Washington l’imperativo è sempre lo stesso: impedire che una sola potenza o gruppo di potenze avversarie domini le distese eurasiatiche. Quindi il mondo. Il primato americano esclude il condominio con un colosso in grado di egemonizzare il supercontinente incastonato tra Atlantico e Pacifico, Mediterraneo e Oceano Artico. Di interdire dunque le vie di comunicazione marittima agli Stati Uniti, isolandoli. Questo incubo potrebbe materializzarsi solo in caso di combinazione Cina-Russia-Germania. Minaccia oggi percepita a Washington come fumosa. Anche di qui la riluttanza di Obama a impelagarsi in massicce campagne militari in terra d’Eurasia, preferendo esercitarvisi in operazioni marginali, più o meno collegate alla repressione del terrorismo. Manutenzione, non strategia. Quando azzardano sortite in contropiede nel campo russo – le «rivoluzioni colorate», ossessione del Cremlino, specialità della Ciam,  gli Stati Uniti curano che siano per quanto possibile coperte. Evitano il ricorso diretto alla forza.

Brillante il caso dell’Ucraina, dove nel gennaio-febbraio 2014 americani, britannici e altri atlantici hanno cavalcato la rivolta popolare di Jevromajdan per virarla in colpo di Stato contro un leader percepito quale fantoccio di Mosca a Kiev. Affossando contemporaneamente le velleità diplomatiche tedesche e l’influenza russa in quella cruciale marca est-europea. Per Mosca, invece, l’Eurasia non è solo geopolitica: è identità. Appena insediato al Cremlino, il 10 novembre 2000 Putin ha stabilito: «La Russia si è sempre sentita un paese eurasiatico» . Punto. L’accento posto negli ultimi anni sulla dimensione asiatico-pacifica e artica della Federazione Russa, frutto anche delle disillusioni patite nel rapporto con americani ed europei, rivela tale pulsione. La Russia vorrebbe l’Eurasia relativamente stabile e integrata, almeno nella sua massa centrale (Heartland). A servire quattro obiettivi irrinunciabili.

A) Proteggere la sua precaria stabilità statuale e favorire il flusso dei suoi idrocarburi verso i mercati europei e (in prospettiva sempre più) asiatici. Sotto il profilo strategico-militare, il principio base è: «Mai più combattere una guerra sul suolo russo». Dunque niente alleanze ostili (Nato) nell’ex Urss, paesi baltici esclusi. Dopo l’espansione a est dell’Alleanza Atlantica, che ha permesso agli occidentali di avanzare per circa 800 chilometri sulla strada di Mosca senza sparare un colpo e di accerchiare l’exclave russa di Kaliningrad, l’obiettivo è impedire che le vecchie ma non dimenticate promesse americane di estendere la Nato a Georgia e Ucraina diventino realtà .

B) Strutturare un’area d’influenza economica e geopolitica su gran parte dello spazio già sovietico. Il cui nucleo centrale è battezzato Unione Economica Eurasiatica (Uee), oggi comprendente Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan, che si dà formalmente il modesto orizzonte di una comunità economica (nel futuro invisibile persino dotata di istituzioni politiche) estesa da Lisbona a Vladivostok, via integrazione con l’Unione Europea. Guerra in Ucraina e crisi d’identità dell’Ue, assieme alla penetrazione cinese in Asia centrale, alle recenti tensioni in Kazakistan, all’incertezza sul dopo-Karimov in Uzbekistan  e sulla leadership kirghisa, rendono improbabile l’ampliamento dell’Unione Economica Eurasiatica e ne minano la sopravvivenza.

C) Rafforzare l’allineamento pragmatico con la Cina, accettando senza ammetterlo il rango di junior partner. Pechino e Mosca condividono la convinzione di essere entrambe oggetto di aggressivo containment a stelle e strisce, oltre che della diffusa minaccia jihadista, ramificata dal Medio Oriente via Siraq, con fulcro rispettivamente nel Xinjiang e nel Caucaso settentrionale. Di qui i recenti accordi geoenergetici sino-russi e le ostentate manovre militari congiunte. Né gli uni, allo stato poco più che embrionali, né le altre, non proprio espressione di un’antica fraternità d’armi, configurano un’intesa strategica – anche se i militari cinesi amano il termine «semi-alleanza». Al fondo, Mosca continua a coltivare il timore atavico dell’infiltrazione cinese nell’Estremo Oriente russo. Non potendo opporvisi con la forza, preferisce abbracciare il Dragone, sperando di domarlo.

D) Profittare della disintegrazione europea – Brexit, crisi migratoria, emergenza jihadismo – e delle dispute intestine alla Nato – risse turco-americane dopo il fallito golpe del 15 luglio, tensione fra russofobi del Nord-Est e pragmatici centro-occidentali su Ucraina e dintorni – per giocare dentro il campo avversario. E costringere l’Occidente a mediare con se stesso. Malgrado il deteriorarsi delle relazioni con Berlino in seguito ai fatti di Kiev e all’annessione della Crimea, Mosca guarda alla Germania e in subordine all’Italia quali leve per scompigliare la costellazione euroatlantica. Sotto questo profilo, il progetto cinese di nuove «vie della seta», ovvero di grandiose infrastrutture portuali e ferroviarie deputate a incentivare i commerci tra Europa e Cina, serve la visione moscovita dell’Eurasia. A patto che non scavalchi la Federazione Russa.

In conclusione, l’idea fissa del Cremlino è che Washington voglia strangolare la Russia con un cordone sanitario eurasiatico imperniato sulla Nato. Il reputato analista Rostislav Iš0enko ne deriva la seguente profilassi: «Creare una quantità di vie di transito tale che non si possa tagliarle con un “cordon sanitaire”. Estendere i gasdotti sottomarini, stabilire propri porti sul Baltico e lungo il Passaggio a Nord-Est, tenere aperta la ‘porta bielorussa’ sull’Europa, aumentare la capacità della via di transito kazaka». Vasto programma. Nello scontro fra Russia e Stati Uniti ciascuno pensa che l’altro sia all’offensiva. La partita ucraina è la pietra di paragone di questo gioco di specchi.

Per i russi il golpe di Kiev è stata la prova generale della «rivoluzione colorata» che gli americani, con i loro alleati di punta nellaNato del Nord-Est (Regno Unito, Polonia, baltici) e con alcuni paesi formalmente neutrali (Svezia, Finlandia), vorrebbero riprodurre quanto prima a Mosca. La liquidazione di Janukovy0 è un’operazione modello. Nella descrizione di uno specialista russo: «Lo strumento principale della guerra ibrida sono le famigerate “quinte colonne”, agenti d’influenza controllati dall’avversario (l’osservatore malizioso si chiederà se il riferimento non sia anche allo stesso Janukovy0, n.d.r.)» . Obiettivo: «La legittimazione di forze politiche antigovernative e il riconoscimento del loro diritto a rappresentare il popolo che si sarebbe espresso contro la tirannia dei dirigenti in carica. (…) Le azioni legittime delle autorità per ristabilire l’ordine sono condannate come violazione dei diritti umani e soppressione della popolazione civile», così delegittimando e demonizzando il potere costituito.
Per gli americani, l’accento cade sull’annessione russa della Crimea, in palese violazione della legge internazionale – branca del diritto cui Washington si dedica con intermittenza – e sul sostegno russo ai ribelli del Donbas. La prima è considerata perfido capolavoro di strategia, conferma della teoria di Sunzi (Sun Tzu) per cui la vittoria ideale è quella che si ottiene senza combattere, con il sotterfugio. Nel caso specifico, con «un piccolo atto di teppismo», giusta la delicata definizione offerta a 
Limes dal commentatore russo VitalijTret’jakov 16. Disinformazione, mobilitazione dell’opinione pubblica, forze speciali. In specie «omini verdi» – i soldati senza insegne e a volto coperto che presero fulmineamente il controllo deigangli vitali della Crimea (figura) – ribattezzati in patria «persone garbate» (vežlivye ljudi), che sotto forma di pupazzetti in plastica vanno a ruba nei negozi russi di modellismo militare in confezioni da quattro pezzi più gatto (omaggio a Bulgakov?). Al Pentagono sono convinti che si tratti di uno schema da esportazione. Prefigurazione di analoghe operazioni in paesi intermedi (Moldova) se non Nato (Estonia e Lettonia). Forse rimuovendo la memoria della disastrosa tattica afghana del generale Stanley A. McChrystal, nel frattempo caduto in disgrazia, che si proponeva di paracadutare «governi in scatola» nelle aree liberate.

Entrambe le interpretazioni contengono frammenti di verità ed estrapolazioni arbitrarie. Non c’è dubbio che Obama non si sarebbe disperato se avesse potuto assistere alla caduta di Putin, da cui sarebbe idealmente derivato un regime change filo-occidentale a Mosca, lasciando un suo segno indelebile nella storia (ma ha ancora qualche mese di tempo). Meno ancora si può dubitare che Putin sogni di riproporre all’occorrenza analoghi sgambetti ibridi nelle terre ex sovietiche da sigillare rispetto alle influenze occidentali, in Europa orientale, come anche cinesi, in Asia centrale. Ma che gli apparati strategici americani siano unanimemente proiettati a rovesciare il potere russo, a rischio di veder subentrare a Putin un ultranazionalista bellicoso e/o di sbriciolare lo spazio della Federazione, eccitandovi guerre civili per la determinazione delle nuove frontiere, per il controllo delle risorse naturali e di migliaia di testate atomiche, forse a vantaggio della Cina, è da dimostrare. Così come bisogna accreditare lo Stato profondo russo, di cui Putin è provvisoria espressione, della coscienza che lo scenario della Crimea e in minor misura del Donbas – con la prossimità al confine nazionale e la robusta presenza di russi e filorussi – è irriproducibile altrove. Paesi baltici compresi. Tentare un colpo di mano simile a Kiev, poi, sarebbe impensabile. Per recuperare pezzi di ex Urss finiti al nemico l’escalation prima convenzionale poi forse nucleare sarebbe inevitabile. L’intervento militare russo in Siria, le ambigue intese con l’Iran e con la Turchia, le operazioni d’influenza in Nordafrica, fra Egitto e Libia, e nel Golfo hanno colto gli Stati Uniti e i loro alleati europei con la guardia bassa. Anche perché suonano smentita della tesi obamiana sulla Russia «potenza regionale», che tanto ha offeso Putin. E che ne ha incentivato la determinazione a esibire le capacità di proiezione russa in aree dove presenza e credibilità statunitense hanno sofferto qualche rovescio, invitando forze esterne e domestiche a riempire i vuoti lasciati dal nichilismo (o smart power, a seconda dei gusti) della Casa Bianca.

Il combinato disposto dell’annessione della Crimea, del supporto armato alle repubbliche separatiste di Luhans’k e Donec’k e delle avventure mediorientali, nel contesto dell’impressionante rivitalizzazione dello strumento militare sotto Putin , ha resuscitato il fantasma della Nato. Già premiata ditta senza più ragione sociale, vedova del Nemico sovietico, oggi l’Alleanza Atlantica sta rafforzando le difese contro la minaccia di un’aggressione russa nella fascia Intermarium, fra Mar Baltico e Mar Nero – ormai elevata a Interoceana, dall’Artico all’Indiano, visto l’attivismo di Mosca nel Grande Nord e attorno alla Penisola Arabica. Gli Stati Uniti hanno stanziato un fondo di emergenza da 789 milioni di dollari nell’anno corrente, da elevare a 3,4 miliardi nel 2017, per irrobustire la propria impronta militare nell’Europa orientale. E per segnalare insofferenza nei confronti dei pavidi alleati europei, solo quattro dei quali (Grecia, Regno Unito, Polonia ed Estonia) spendono almeno il 2% del pil per la difesa, soglia minima per non essere marchiati al Pentagono quali viaggiatori a sbafo. Dopo che un molto pubblicizzato gioco di guerra della Rand aveva rivelato quel che ragioni d’ufficio imponevano di dimostrare, ovvero che in caso di guerra le avanguardie russe metterebbero le mani su Lettonia ed Estonia nel giro di 36-60 ore, e mentre il generale Curtis Michael Scaparrotti, il nuovo comandante supremo delle forze atlantiche in Europa (di origini foggiane) dipingeva «una Russia risorgente che sta cercando di proiettarsi come potenza mondiale», l’Alleanza varava un piano di rassicurazione dei soci nordici. Fra l’altro, dal maggio prossimo saranno stazionati a rotazione nell’area baltica quattro battaglioni – quattromila uomini circa – composti da soldati di diverse nazionalità, scaglionati fra Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, rispettivamente sotto comando di Stati Uniti, Germania, Canada e Regno Unito, deputati non solo alla deterrenza ma all’eventuale combattimento. A questo primo spiegamento di truppe Natoa ridosso della Russia e dentro le frontiere dell’ex Urss è annunciata la partecipazione italiana, con un contingente di circa 150 uomini da allocare in Lettonia sotto comando canadese. Lo schieramento ha valenza simbolica. Vuole produrre il cosiddetto «effetto cavo elettrico (tripwire)»: filo d’inciampo per garantire polacchi e baltici sulla decisione di far scattare quando necessario l’articolo 5 del Patto Atlantico, che implica la difesa collettiva di qualsiasi socio aggredito. Giacché gli interessati non sono convinti della disponibilità americana a morire per Vilnius né per Varsavia, visto che in tempi di guerra fredda si dubitava persino della determinazione atlantica a difendere Berlino Ovest.

Riemerge qui il tema cruciale della difficoltà a leggere le intenzioni altrui. In campo russo, si teme che la guerra ibrida all’occidentale ponga Mosca davanti al fatto compiuto, come il 22 febbraio 2014 in Ucraina, con la defenestrazione di Janukovy0 poche ore dopo che la diplomazia tedesca, vestita da europea, aveva vantato il raggiunto accordo di mediazione fra piazza e presidente legittimo, nel frattempo delegittimato. Sul fronte atlantico, l’inquietudine deriva non tanto dalle capacità offensive di Mosca, quanto dalla tradizionale abilità russa nella maskirovka, il camuffamento dell’infiltrazione nello spazio nemico tipico della guerra ibrida. Ciò ritarderebbe o forse metterebbe in dubbio l’applicazione dell’articolo 5. Peggio: in genere, quando gli strateghi di qualsiasi paese non riescono a decrittare la volontà del nemico, la derivano dalle sue capacità militari: più crescono, più è probabile che servano per preparare l’aggressione, più è quindi necessario alzare il grado della propria deterrenza. In casi estremi, scatenare l’attacco preventivo. Nel caso specifico, il pur relativo ammodernamento delle Forze armate russe, accompagnato dalla grancassa della retorica anti-occidentale e dalla maturazione di un nuovo concetto strategico, considerato alquanto aggressivo, ha suscitato l’allarme del Pentagono e non solo. Per diversi analisti, la «deterrenza strategica» russa non è deterrenza, ma preparazione mascherata della guerra contro la Nato. In russo esistono almeno due termini per «deterrenza»: sderživanie (dalla radice del verbo «trattenere», assimilabile al containment dei manuali americani, qualcosa di più della mera prevenzionedella guerra) e ustrašenie («intimidazione», a evocare l’arma nucleare). Nel descrivere la sua dottrina, la Russia ricorre principalmente a sderživanie. Ma gli strateghi occidentali inclinano a concentrarsi sulla versione intimidatoria di tale concetto. Non è pura diatriba linguistica. Non c’è dubbio che lo Stato maggiore russo abbia espanso nel tempo il suo modo di intendere la deterrenza, accentuandone l’ambiguità.

Il salto di qualità si riassume in tre fasi. Negli anni Novanta del secolo scorso la disastrata Russia ha come unico deterrente il residuo arsenale atomico già sovietico. I militari russi, consci della loro schiacciante inferiorità in qualsiasi conflitto non atomico con gli americani, sono prigionieri di questa monocultura strategica, pressoché inservibile come deterrente verso minacce convenzionali. Sicché alla fine di quel decennio elaborano la teoria della de-escalation: se l’esistenza dello Stato è in pericolo a causa di un attacco convenzionale, si deve considerare l’impiego limitato, «su misura», di ordigni atomici contro obiettivi militari. Mosca comincia a studiare come connettere gli strumenti convenzionali all’arma definitiva. Obiettivo: allargare le opzioni a disposizione per la deterrenza strategica e uscire dalla prigionia del nucleare. Infine, nel decennio in corso, si afferma la tesi per cui il nucleare, che già serve a poco come deterrente nei confronti di ipotetiche offensive convenzionali, vale nulla contro le «rivoluzioni colorate». Siamo nell’epoca della guerra ibrida, del continuum guerra/pace. In parole povere, non c’è mai pace, siamo sempre in guerra. In questo ambiente si combatte e si vince soprattutto con mezzi non militari. Il nuovo concetto di deterrenza strategica allarga quindi di parecchio la sua sfera semanticae operativa. 

Apriamo il dizionario del ministero della Difesa russo alla voce «deterrenza strategica»: «Un sistema coordinato di misure militari e non militari (politiche, diplomatiche, legali, economiche, ideologiche, scientifico-tecniche e altre) prese consecutivamente o simultaneamente(…) allo scopo di scoraggiare azioni militari capaci di produrre danni di carattere strategico. (…) La deterrenza strategica è diretta alla stabilizzazione della situazione politico-militare (…) on-de influenzare un avversario in un contesto predeterminato, o per la de-escalation del conflitto. (…) Le misure di deterrenza strategica sonosviluppate continuamente, in tempo di pace e di guerra». La vulgata atlantica vede oggi nell’evoluzione di questo concetto lo slittamento della postura russa in senso aggressivo. Opinione rafforzata dalla tronfia retorica di dirigenti e generali russi, volta a mobilitare il patriottismo domestico e a compattare l’immenso paese, di cui sempre si teme l’implosione. Specie nell’attuale congiuntura economica, segnata dalla crisi dovuta al crollo del prezzo del petrolio e in minor misura alle sanzioni occidentali, enfatizzata dalla rigidità del regime oligarchico che non consente le riforme necessarie a emancipare la Russia dalla monocultura energetica. Risultato: la nuova deterrenza russa è asimmetrica rispetto ai canoni occidentali, che di tale termine offrono una lettura ristretta, distinguendo nettamentela guerra dalla pace. Il problema è che la deterrenza è simmetrica o non è. E la simmetria non dipende dalle intenzioni difensive di una parte, ma dalla disponibilità dell’altra a percepirle tali. Solo così si può scongiurare lo scontro militare «per errore». Ma se la volontà di proteggersi è espressa in modo da suscitare nell’avversario il sospetto che si tratti di un pretesto per coprire la decisione di attaccarlo, l’effetto è opposto. Come nota l’esperta norvegese Kristin ven Bruusgaard, ambiguità e pervasività della dottrina russa spingono alcuni paesi occidentali, in particolare la componente russofoba della Nato, a intenderla come lo squillo di tromba che annuncia una prossima aggressione . I dirigenti russi possono illudersi di disporre a piacimento di varie modalità di deterrenza intese come puramente difensive – per esempio intrusioni negli spazi aerei e sottomarini baltici o svedesi, capaci peraltro di innescare un conflitto accidentale – che qualche eccitato decisore atlantico rischierebbe di scambiare per attacco in piena regola. Allo stesso tempo, il Cremlino non crede affatto che lo scudo antimissile americano in Europa, da completarsi per il 2020, sia stato concepito – come sosteneva con raro humor lo stesso Obama – contro la bomba atomica iraniana. Lo considera serissima minaccia strategica al suo ombrello nucleare. E interpreta lo schiera-mento di una token army atlantica a ridosso delle frontiere nazionali, inteso da Washington quale omeopatia calmante nei confronti di polacchi e baltici, come conferma della volontà di annettersi quel che resta del cuscinetto geopolitico fra Russia e Nato e di penetrare in profondità nel mondo russo. 

Troppe guerre scoppiano perché i contendenti si convincono che siano inevitabili. Non siamo a questo. Ma nella guerra ibrida fra Stati Uniti/Nato e Federazione Russa stiamo scivolando per inerzia lungo un piano inclinato che può sfociare nel conflitto totale. Tra i due campi domina la sfiducia, mentre nella Nato si allargano le distanze fra chi mette in guardia, come tedeschi, italiani e (con qualche bemolle) francesi, contro i rischi degli esercizi di postura bellica e chi, come estoni, polacchi e lettoni (un tono sotto i lituani) valuta probabile lo scontro definitivo con l’impero russo. Il clima si accende anche all’interno dei due schieramenti. Putin potrebbe rimanere vittima dei suoi continui rilanci, che hanno surriscaldato il nazionalismo russo. Non è impensabile che un giorno qualche peso massimo nell’élite che lo sostiene e sorveglia voglia sgambettarlo qualora cedesse alla tentazione di accordi al ribasso con il nuovo/vecchio nemico. Quanto a Washington, le accuse ai servizi russi di hackeraggio ai danni del Partito democratico, financo di voler alterare il voto presidenziale penetrando i sistemi elettronici di alcuni Stati federati, ravvivano – queste sì – memorie da anni Cinquanta. Di più: buona parte dell’establishment considera le lodi di Trump a Putin tradimento in potenza, quanto meno sintomo di incoscienza. Quasi il candidato repubblicano, consapevole o meno, fosse cavallo di Troia di Mosca. Nemico dello Stato. Nel marzo 2000, alla domanda della Bbc se la Russia potesse entrare nella Nato, Putin rispondeva: «Perché no?» . Oggi la questione non si pone nemmeno. Ma almeno dovremmo stabilire se Russia e Alleanza Atlantica (leggi: Stati Uniti) possono diventare partner, ciascuno nel suo ordine e spazio, oppure no. Nel tempo visibile la risposta è quasi certamente negativa. Questo non significa viversi da nemici mortali. Fra Mosca e Washington un compromesso è possibile. La guerra ibrida può raffreddarsi. Ma solo sulla base di una architettura di sicurezza e di cooperazione paneuropea che coinvolga tutti: russi con i loro scarsi alleati, americani con quel che resta della nevrotica famiglia atlantica, ma anche paesi della «zona grigia» (Ucraina, Georgia e Moldova in testa), poste in gioco della competizione in corso. Dopo un secolo di guerre calde, fredde e ibride, l’Europa può trarne la lezione: nessun conflitto cessa finché il vincitore non coinvolge lo sconfitto nella pace. Verità sperimentata già tre volte in un secolo. Eppure insistiamo a rimuoverla.

Dopo la prima guerra mondiale, a Versailles la Francia proscrisse la Germania, virando la pace in tregua di vent’anni. Esaurita nel 1945 la guerra civile europea, Stati Uniti e Urss, memori di Versailles ma non sapendo che fare dei vinti, si spartirono il continente, divise su tutto ma affratellate dalla sfiducia nella Germania. Per sicurezza ne crearono due, di modo che ciascuno controllasse i «suoi» tedeschi. Scaduta la guerra fredda, Washington allentò la presa sugli europei. Ma per scongiurare ulteriori sbarchi in Normandia volle che diventassero quasi tutti atlantici, adeguandosi senza negoziare alle regole del club: le sue. La Russia fu pregata di accomodarsi all’angolo, dove avrebbe covato risentimento e volontà di rivincita. Frustrata dalla consapevolezza di non potersela permettere, se non a piccole dosi (Abkhazia, Ossezia del Sud, Crimea). Cent’anni dopo, continuiamo ad aggirarci nei pressi della reggia del Re Sole. Al quarto giro di boa ,riusciremo a guarirci dalla sindrome di Versailles.


Riferimenti:

  • KARAGANOV, «We Are Smarter, Stronger and More Determined», intervista a Ch. NEEF, Spiegel Online, 7/13/2016, goo.gl/OeNYcg.
  • FRIEDMAN, «The World Before World War II Re-Emerges», Geopolitical Futures, 8/9/2016.
  • KOFMAN, A. SUSHENTSOV, «What Makes Great Power War Possible», Valdai Club Discussion Report.
  • R.K. SIMHA, «Pacific Pushback: How the Russia-China Semi-alliance Could Stabilize Asia»,  Russia Beyond the Headlines, 1/9/2016.
  • ISHCHENKO, «Trump Might Be Even More Dangerous for Russia than Hillary», Ria Novosti, 2/9/2016.
  • SIVKOV, «Vo glave s “pjatoi kolonnoj” – 0ast’I» («Guidati dalla “quinta colonna”»), Voenno – Promyšlennyj Kur’er, 3/6/2015, vpk-news.ru/articles/25473,
  • S. CHARAP, «The Ghost of Hybrid War», Survival, vol. 57, n. 6, December 2015-January 2016, pp. 51-58, qui pp. 51-52.
  • TRET’JAKOV durante la tavola rotonda sull’Ucraina organizzata da Limes a Roma il 24 settembre 2015.
  • VEN BRUUSGAARD, «Russian Strategic Deterrence», Survival, vol. 58, n. 4, August- September 2016, pp. 7-26.
  • CHARAP, J. SHAPIRO, «How to Avoid a New Cold War», Brookings Institution, 25/9/2014.