Da Leningrado a San Pietroburgo: un futuro comune ancora da costruire.

di Andrea Migliuolo

Sono tornato nella mia amata terra di Russia dopo oltre 30 anni, a San Pietroburgo, da sempre naturale porta/vetrina dei russi e del loro establishment verso l’Europa. Lo splendore della Venezia del Nord, disegnata da italiani e francesi, è rimasto intatto; rispetto ad allora si sono ora aggiunti gli sfarzi del nostro mondo: automobili ovunque, nonostante un trasporto pubblico capillare ed efficiente; ristoranti, fast food, kebab e bar/caffé perennemente pieni e rumorosi; ovunque bagarini e strillatori di strada (anche con megafoni) che, solo in russo, offrono biglietti e tour per le attrazioni turistiche e culturali della città. Il tutto condito da una giungla di cartelli, insegne luminose, pubblicità e quant’altro atto ad attirare l’attenzione del consumatore/turista, senza alcun rispetto per il decoro urbano o la bellezza dell’architettura storica della città.

A fine maggio/inizio giugno la città era invasa da turisti: la maggior parte erano russi o ex-sovietici (dell’area del Caucaso, delle repubbliche centro-asiatiche, Kaliningrad), molti cinesi, i soliti giapponesi, relativamente pochi “occidentali” (salvo un’eccezione, per poche ore, quando è attraccata una Costa crociere). Due cose mi hanno colpito profondamente:

  1. mentre tutto quello che è rappresentato dai servizi al consumatore (ristoranti, bar/caffé, negozi, ecc.) mi è parso di livello decisamente adeguato e distante anni luce rispetto alle vetrine vuote con le file fuori di allora, l’apparato pubblico che gestisce gran parte di ciò che è turismo culturale (Hermitage, concerti, balletti, ecc.) sembra rimasto com’era, burocratico, scollegato dalle realtà locali che dovrebbe servire, inefficiente e scostante/scortese con tutti, ma in special modo con lo straniero; le informazioni scritte sono quasi sempre rigorosamente in russo (raramente, come all’Hermitage, alcune indicazioni al botteghino – non tutte – sono in inglese); gli addetti, a partire da chi vende i biglietti fino alle “dievocke” nelle sale dei palazzi e dei musei, non parlano altro che la loro lingua, e si infastidiscono con chi chiede qualcosa in un’altra lingua. In questo senso, non sembra cambiato niente in 30 anni;
  2. ho avuto la chiara sensazione che, in linea generale, lo straniero, soprattutto quello occidentale, non sia il benvenuto; questo sicuramente dall’apparato pubblico (vedi sopra), ma in fondo anche dalla parte produttiva/privata della società: pochissimi parlano inglese, purtroppo anche tra i giovani, e le altre lingue vengono ignorate; la domanda di servizi da parte della popolazione di lingua russa appare talmente alta da rendere i locali prevalentemente indifferenti ai consumatori ed ai turisti di altri luoghi. Infine, la ricerca dello scambio informativo e culturale tra popoli sembra francamente assente, forse inghiottita dalla pienezza della vita odierna in questa metropoli russa.

La sorpresa è stata grande: è vero che la storia insegna della reciproca diffidenza tra i russi e noi occidentali; i miei ricordi di allora, però, parlano anche di una popolazione estremamente curiosa di capire quello che fosse il presunto avversario, il suo pensiero, le sue abitudini, il suo modo di vivere; ogni occasione era buona  per uno scambio di opinioni e di esperienze, per un acceso dibattito politico, per bere insieme, salvo poi lasciarsi molto cordialmente e con la sensazione di essersi comunque arricchiti culturalmente. Tutto ciò nella Russia di oggi mi sembra molto lontano, anzi, forse addirittura perso. La mia opinione è che ci siano due ragioni per questo disinterresse dei russi nei nostri confronti: una sociologica, l’altra politica:

  • dal punto di vista della società civile odierna, il russo medio ha raggiunto il benessere apparente: consumismo, automobili (anche di lusso), generi alimentari, moda, ecc.; la disponibilità di tutte le tipologie di media per informarsi (con i problemi che conosciamo); l’accesso all’internet (anche qui, con qualche limite); saturi di tutto ciò, e forse (pre)occupati dal “da farsi” quotidiano, sembra che i russi non sentano più il bisogno di cercare il diverso, di confrontarsi sui vari modelli sociali e di vita, di vedere cosa c’è aldilà dello steccato;
  • politicamente poi, orientare la visione dello stato, i suoi apparati, le sue strutture, le sue risorse sull’unicità nazionale, la purezza della propria cultura/lingua/abitudini/ecc., può facilitare la concentrazione ed il consolidamento del consenso popolare (succede anche ad Ovest ed altrove); il tutto quindi non sembra casuale, ma piuttosto frutto di una strategia politica atta a mantenere alto l’orgoglio nazionale e creare gli spazi di consenso necessari per poter svolgere, nel novero del supremo interesse strategico della madre patria, tutte le attività ritenute utili, sia in patria che all’estero.

In questo contesto mi sono convinto che le sanzioni non possano bastare. A mio avviso sono assolutamente necessarie se vogliamo continuare a professarci paesi liberi, democratici e rispettosi/difensori delle leggi/regole internazionali; servono anche a mettere sotto la dovuta pressione le autorità russe (da ciò che ho visto in loco però, ho forti dubbi sulla ripartizione del peso di queste sanzioni tra i vari paesi occidentali). Detto questo, se non intraprendiamo anche un’opera di riavvicinamento alla/della società russa, in modo da farla partecipare il più possibile al mondo che la circonda e dimostrarle che nessun popolo può essere autosufficiente, neanche il loro, rischiamo di perderla del tutto, con riflessi nefasti per la geo-politica globale di lungo termine.

Come? Sicuramente bisogna partire dalla parte più sensibile ed aperta ad un progetto del genere: le nuove generazioni. Gli strumenti ci sono: si chiamano Erasmus, Youth in Action, Erasmus Plus, Fulbright (per gli USA), ecc.; perché non progettare di estenderli anche ai giovani russi, magari concordandoli alle autorità russe come progetti di sviluppo verso una nuova partnership Europa/USA – Russia, una discontinuità rispetto alle tensioni recenti e rispetto alle sanzioni in corso, in nome del futuro dei giovani e del mondo che gli lasceremo. Ovviamente, per essere efficace e raggiungere le sacche di popolazione tradizionalmente lontane dai contatti con l’esterno, le procedure di inclusione dovranno essere ben pensate e le selezioni molto rigorose. Questo (o qualcosa di simile) è un progetto per le future generazioni, non per il breve termine, ma, se non iniziamo, lo steccato non potrà che ampliarsi ed il nostro fianco Est rimarrà sempre un punto debole.