Elezioni britanniche: la situazione

di Guido Long

Il 12 dicembre si terranno nel Regno Unito le terze elezioni politiche in 4 anni. Dopo le dimissioni di David Cameron in seguito al voto pro Brexit, Theresa May aveva cercato di rafforzare la sua maggioranza parlamentare con le elezioni anticipate. Risultato: maggioranza persa e governo alla mercé di dieci unionisti nordirlandesi ultraconservatori del DUP, che per il loro supporto ottennero 1 miliardo di investimenti extra in Irlanda del Nord. Ora il suo successore, Boris Johnson, dopo aver ottenuto il premierato grazie alla sua posizione più estrema sulla Brexit si affida anch’egli ad elezioni per ottenere un mandato popolare. Nel frattempo, il laburista Jeremy Corbyn è schiacciato dalle ali pro e anti Brexit del suo partito, mentre i liberaldemocratici LibDem si presentano con un messaggio inequivoco: revocare la Brexit e rimanere nell’Unione Europea. Ma come arrivano i partiti a queste elezioni, le prime a dicembre dal 1923?

Il partito conservatore è ormai un partito pro Brexit: le ultime sacche di resistenti sono state epurate, cacciate dal partito per aver votato contro il no deal, dopo che decine di deputati brexiteer avevano votato regolarmente contro il governo May, senza conseguenze. Boris Johnson, premier dal 24 luglio, dopo aver dichiarato che avrebbe preferito essere “morto in un burrone” piuttosto che postporre la Brexit oltre il 31 ottobre ha invece dovuto cedere al parlamento e richiedere all’UE esattamente questo. Il suo nuovo accordo di uscita con l’UE è stato votato dal parlamento, ma prontamente ritirato dal governo dopo che il parlamento aveva richiesto più tempo per analizzarlo (ed emendarlo). Johnson vola nei sondaggi, e ha visto le sue possibilità di ottenere la maggioranza aumentare dopo che “Mr Brexit” Nigel Farage ha annunciato che il suo Brexit Party non schiererà candidati nei 317 collegi ottenuti dai conservatori nel 2017. Gli analisti non sono d’accordo sul reale impatto di questa decisione, ma esemplifica perfettamente la visione Brexit centrica dei Tories.

Il partito laburista, sempre più alla sinistra dello scacchiere data la guida Corbyn-McDonnell (shadow chancellor e responsabile delle politiche economiche del partito) ha scelto una posizione quantomeno ambigua. Messo sotto pressione dalle esigenze opposte dei deputati che rappresentano collegi a maggioranza leave e attivisti e membri del partito fortemente pro remain, il partito laburista ha deciso di sostenere formalmente un secondo referendum. Le opzioni sulla scheda sarebbero due: rimanere nell’UE o uscire secondo un trattato rinegoziato dal Labour, che ovviamente si aspetta sia molto migliore di quello di Johnson. Interessante come il partito non si schiererebbe ufficialmente a favore di nessuna delle due opzioni, ma lascerebbe membri e parlamentari fare campagna per l’opzione che preferiscono. Questa posizione che cerca di accontentare tutti come spesso accade scontenta molti, e il Labour rischia di perdere parecchi consensi a favore dei LibDem.

I liberal democratici, guidati dalla nuova leader Jo Swinson, trentanovenne scozzese contro l’indipendenza della Scozia, si sono ritagliati uno spazio nazionale come principale partito pro remain. La posizione ufficiale del partito, in caso di poco probabile maggioranza, è quella di revocare unilateralmente la domanda di uscita dall’Unione, e restare parte integrante dei 28. Questa mossa, a sua volta estrema (sono accusati da alcuni di essere estremisti quanto Farage), è stata in parte dovuta alla necessità di differenziarsi dal Labour dopo che questo aveva accettato l’idea di un secondo referendum. Quasi scomparsi dopo il quinquennio in coalizione con i conservatori, i LibDem sono rinati, arrivando secondi alle elezioni europee dopo il Brexit Party, e contano ottenere decine di seggi parlamentari a scapito sia del Labour che dei Tories.

Per quanto riguarda i partiti minori e quelli regionali, in Scozia lo Scottish National Party potrebbe fare incetta di voti in modo simile a quanto ottenuto nel 2015 quando, forte della delusione post referendum pro indipendenza fallito, ottenne 56 dei 59 seggi disponibili in Scozia. L’altro partito nazionalista, il gallese Plaid Cymru, potrebbe in alcuni collegi formare una “remain alliance” insieme a Verdi e LibDem, per evitare la dispersione di voti e favorire candidati pro remain. In Nord Irlanda il DUP rischia di perdere seggi a favore dei repubblicani di Sinn Féin (che tradizionalmente non si insediano per non prestare fedeltà alla regina, riducendo il numero di deputati necessari per la maggioranza).

La campagna elettorale è naturalmente dominata dalla Brexit, ma anche da un clima tossico e violento (molti deputati e soprattutto deputate ricevono regolarmente minacce di morte e messaggi d’odio) e da tematiche di politica interna, come lo stato del servizio sanitario nazionale e la criminalità giovanile (sono in aumento le morti per accoltellamento). Conservatori e laburisti litigano sui rispettivi aumenti di spesa promessi, mentre i cittadini sono in buona parte stanchi dello sterile dibattito politico e delle ennesime elezioni. I sondaggi danno in netto vantaggio Johnson, ma tutto è possibile dato che Theresa May chiamò le elezioni per via del suo vantaggio a doppia cifra su Corbyn, che il giorno del voto si rivelò essere di soli due punti percentuali.