Il nuovo mondo di Trump

di Matteo Laruffa

Nel 1946, Sumner Welles, diplomatico americano e uomo di fiducia del Presidente Roosevelt, pubblicò il libro Where are we heading? (in italiano “Dove stiamo andando?”). Dal titolo traspariva in modo inequivocabile il senso di incertezza sulla politica estera degli Stati Uniti e il ruolo della superpotenza americana nel mondo. Un clima di preoccupazione che, ora come allora, non lasciava indifferente nessuno, dentro e fuori le istituzioni di Washington, fino ad arrivare nelle stanze della Casa Bianca.

Anche oggi, la politica estera degli Stati Uniti si prospetta carica di dubbi grazie alla strategia, per molti versi precipitosa e aggressiva, voluta dal Presidente Trump. Da un lato, abbiamo assistito alla fine della politica estera che uno dei consiglieri di Obama chiamò del “leading from behind”, cioè dell’incentivare gradualmente i processi di negoziato con apertura e dialogo, dando più importanza al soft power che all’hard power. Dall’altro, si sta sviluppando inesorabilmente una linea politica dura che crea confusione e sfiducia fra gli alleati, in Europa e non solo. Dietro l’imprevedibilità di Trump e della sua comunicazione social si è palesata l’indifferenza per l’autorità delle organizzazioni internazionali e una chiara ostilità per le regole dell’ordine liberale. Un approccio senza scrupoli alla politica estera, che promuove l’obiettivo “Prima l’America!”, costi quel che costi, e nello specifico, sembra ispirato dall’antagonismo contro i principii, le consuetudini e le strategie che hanno guidato la politica estera a stelle e strisce negli ultimi decenni.

Queste poche considerazioni richiamano quelle contenute nella lettera di dimissioni dell’ex Segretario alla Difesa James Mattis e presentata alla Casa Bianca lo scorso 20 dicembre. Dimissioni che confermano i difficili rapporti tra il Presidente e l’establishment e, in generale, riflettono i principali motivi di inquietudine che alimentano i timori che la dottrina Trump possa danneggiare Washington, ipotecando senza alcuna speranza, il futuro della stessa leadership americana nel mondo.

Se la causa di questa incertezza è dovuta proprio alla visione della politica estera che il Presidente sta imponendo all’America − visione che non è disposto a mediare o discutere con altri, come dimostra il fatto che il Segretario di Stato sia già cambiato due volte in meno di due anni (sono stati invece in media uno per ogni mandato dalla presidenza Carter fino a Obama) − inevitabilmente sono moltissimi quelli che a Washington provano nuovamente a rispondere a un interrogativo così importante come quello di Welles: dove stiamo andando?

Dopo le elezioni di novembre, cerchiamo di capire se l’esito delle urne influirà sulla politica estera americana, e quindi se i democratici potranno fermare il Presidente, oppure Trump riuscirà indisturbato a portare avanti i suoi piani fino alle prossime presidenziali.

Grazie al supporto della maggioranza repubblicana in entrambe le camere del Congresso, Trump non ha avuto alcun sostanziale ostacolo nella gestione della politica estera nei primi due anni del suo mandato. Le elezioni di medio termine tenutesi lo scorso novembre hanno permesso ai democratici di vincere la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti, senza però ribaltare gli equilibri politici nel Senato, dove il numero dei seggi per i repubblicani è addirittura aumentato. Questo risultato a metà, che non rappresenta né la vittoria dei democratici né la sconfitta del GOP, sminuisce ancora di più il ruolo del legislativo e lascia ampi margini di libertà al Presidente, in settori strategici come sicurezza e difesa nazionale,alleanze e politiche commerciali.

In primo luogo, la maggioranza democratica nella Camera dei Rappresentanti non potrà bloccare Trump nelle sue scelte di politica estera per la debolezza che contraddistingue il Congresso nei rapporti con la Casa Bianca. Una debolezza dovuta alla polarizzazione politica esistente ben prima dell’era Trump. Il Congresso è da molto tempo un’istituzione che non riesce a produrre decisioni politiche. Un dato fra tutti indica la sua paralisi: dagli anni Settanta a oggi, il numero di leggi approvate si è drasticamente ridotto. Il 115º Congresso, per intenderci quello dei primi due anni dell’amministrazione Trump, ha approvato circa la metà delle leggi scritte dalla stessa istituzione negli anni di Nixon. Si è passati da più di 26.000 leggi e risoluzioni approvate dal 93º Congresso, a poco più delle 13.000 attuali.

In realtà, il ruolo del Congresso risulterebbe ancora più limitato nel dibattito sulla politica estera. Come già accennato in un precedente articolo apparso sulle pagine della nostra rivista a gennaio 2018, il potere del Presidente ha un carattere prevalente e il Congresso può esercitare un ruolo di vigilanza. Negli ultimi 50 anni i casi in cui il Congresso ha superato il veto di un Presidente nella definizione della politica estera si contano sulle dita di una mano. Ad esempio, nel 1973, dopo aver dichiarato la fine dei bombardamenti in Cambogia, Nixon diede ordini di continuare segretamente la missione, nascondendolo alla nazione e al Congresso. Il risultato fu la ritorsione del legislativo contro la Casa Bianca. Si trattò di un caso eccezionale, ed è improbabile che si ripeta.

Altra ragione che gioca a favore di Trump è l’orientamento dei democratici per molti temi di politica estera sempre più cruciali. In realtà, più di uno dei principali obiettivi della politica estera di questa amministrazione non dispiace i democratici. Ad esempio, nonostante tutti i democratici si dicano preoccupati per le relazioni sempre più fragili fra Casa Bianca e Organizzazione Mondiale del Commercio, i democratici sono stati a favore della linea dura contro la concorrenza delle merci cinesi e hanno acconsentito all’approvazione di sanzioni, dazi e misure protezionistiche nei confronti di altri stati. Allo stesso modo, nonostante abbiano sostenuto Obama nell’intesa sul nucleare iraniano, i democratici non hanno dimostrato alcuna ferma opposizione contro la scelta di Trump di uscire dall’accordo, approvando nuove sanzioni contro Teheran nel 2017. Non c’è neanche da aspettarsi che i democratici si preoccupino del precipitare dei rapporti fra Stati Uniti e l’Onu, dato che la partecipazione degli Usa alle Nazioni Unite non rientra tra le cosiddette salient issue per gli elettori.

Tuttavia, i prossimi due anni non saranno facili per il Presidente. Il risultato elettorale ha delineato dei cambiamenti rilevanti nelle Commissioni della Camera dei Rappresentanti. Il partito di Trump perde la presidenza di importanti Commissioni che passano sotto il controllo dei democratici: la Commissione per gli affari esteri, quella per la vigilanza e la riforma del Governo, la Commissione sull’Intelligence e tante altre ancora.

Sono le tre Commissioni più importanti nella Camera dei Rappresentanti che possono mettere in difficoltà Trump sulla politica estera. Eliot Engel, democratico eletto nello Stato di New York si è da poco insediato alla presidenza della Commissione per gli affari esteri e intende far luce su come gli interessi economici personali del Presidente possano aver influenzato le scelte della Casa Bianca. La Commissione aprirà anche un’inchiesta sul colloquio privato avvenuto a Helsinki lo scorso anno fra Trump e Putin. Non sono mai trapelate indiscrezioni su ciò che si sono detti i due leader e dopo l’annuncio del ritiro delle truppe americane dalla Siria, molti stanno additando al Cremlino un successo geostrategico ritenuto inaccettabile per l’establishment americano. Circostanze che hanno scatenato ulteriori polemiche nel Congresso. Alla ricerca di altri punti deboli del Presidente, la Commissione Esteri potrebbe occuparsi dei sondaggi che nel 2018 hanno coinvolto diplomatici e ufficiali americani impegnati nelle istituzioni internazionali per verificarne la lealtà alla linea politica del Presidente Trump. Altre novità potrebbero scaturire anche da un’azione di advocacy per fermare il supporto della Casa Bianca alle operazioni militari saudite in Yemen.

Il neopresidente della Commissione sull’Intelligence, Adam Schiff, ha già avviato una nuova inchiesta sui rapporti della famiglia Trump e la sua holding, con eventuali personalità rappresentanti il Cremlino, uomini d’affari vicini a Putin o ai servizi di sicurezza russi. Invece, Elijah Cummings, a capo della Commissione per la vigilanza condurrà un’indagine sui possibili casi di corruzione e malaffare nello staff di Trump.

L’attività delle Commissioni potrebbe riservare delle sorprese per il Presidente, ma l’esito delle urne non può esser considerato una battuta d’arresto per i suoi piani. Chi spera che i democratici possano davvero fermare Trump, farebbe meglio a riporre più fiducia nei sistemi istituzionali collaterali alla politica. Questo appare chiaro, ad esempio, osservando il tira e molla fra Casa Bianca e Pentagono, sul ritiro “immediato” delle truppe americane dalla Siria che è stato comunicato dal Presidente via tweet a dicembre. Dopo le polemiche che hanno portato alle dimissioni di Mattis, il Presidente è tuttora al centro delle pressioni delle alte gerarchie militari che non vogliono vanificare i risultati della missione e chiedono di poter ritardare il più possibile il ritiro delle truppe dalla Siria. In altre parole, è più facile che i funzionari cosiddetti “tecnici” riescano a mitigare le scelte di Trump, che l’opposizione possa bloccare la politica estera del Presidente.

Salvo imprevisti, difficilmente i Democratici potranno fermare la metamorfosi della politica estera americana.


Articolo Pubblicato su Eastwest di Marzo/Aprile 2019