Se non Nostrum, di chi?

Carta di Laura Canali – 2011

di Giuseppe Cucchi

La distrazione strategica americana ha riaperto i giochi per il controllo del Mediterraneo. Il ritorno della Russia. La scommessa commerciale cinese. La nuova partita energetica del Levante. Sulle migrazioni l’Italia si sta giocando la sovranità̀.

Per millenni il Mediterraneo è stato per noi italiani come la mamma. La mamma che può essere qualsiasi cosa, fare qualsiasi cosa, ma di cui bisogna sempre continuare a parlare bene perché «la mamma è sempre la mamma!» e rimane perennemente e pienamente scusabile di tutto, anche dei peggiori misfatti.

Quando si parla del Mediterraneo la tendenza è quindi sempre quella di esaltarne i lati positivi. Si sottolinea come sia un mare che unisce e si dimentica che ciò che unisce può in pari tempo anche dividere. Si ricorda come esso sia «il mare delle tre religioni monoteistiche» e si sorvola sul fatto che per la maggior parte della loro storia queste siano state in guerra fra loro. Una guerra, fra l’altro, che si sovrapponeva a un costante clima di competizione, molto poco ecumenico.

Lo si esalta come mare dei commerci che ha permesso gli scambi fra il Nord e il Sud ed è stato il cuore dei contatti fra l’Oriente e l’Occidente e non si fa cenno del come sino a un secolo e mezzo fa esso sia stato anche il mare di una pirateria costante e feroce, tanto radicata da dominare per centinaia d’anni grandi tratti della costa dalmata e di quel Maghreb arabo ove essa era addirittura affare di Stato.

Lo si descrive quale punto d’incontro di differenti culture. Ma un punto di incontro è anche un punto di scontro, come dimostra la serie pressoché infinita di battaglie che ne hanno insanguinato le acque. Scontri tanto più eroici in quanto spesso erano scontri decisivi. Due nomi soltanto: Azio, ove Ottaviano e Roma sconfissero Antonio e il suo sogno di Oriente; e Lepanto, in cui la cristianità sottrasse all’islam un controllo del mare divenuto con gli anni quasi totale.

Se ne parla come mare di pace, strada maestra per gli scambi di idee, ma più che mare di pace esso è sempre stato un mare pericoloso. Lo sapevano bene quegli italiani che vivevano lungo le sue coste e costruivano i loro paesi sulla cima delle colline, cercando così di evitare quello che Brancaleone da Norcia chiamava «lo nero periglio che viene dallo mare!».

Dicono che il Mediterraneo è una strada maestra per le migrazioni, ma allorché queste superano una certa misura divengono invasioni. Da sud sono arrivati gli arabi, sbarcando nell’826 a Mazzara del Vallo e ci sono voluti poi più di due secoli per riuscire a cacciarli. Da sud-est sono arrivati i turchi e le loro incursioni per cercare di fissarsi sul litorale pugliese hanno interessato secoli. L’ombra e la paura che incutevano si riflettono ancora nel «mamma li turchi!» che ricorda quei tempi andati.

Sempre da sud sta arrivando ora questa confusa, massiccia e inarrestabile ondata di migranti, già tanto sconvolgente che non sappiamo più con quale termine indicarla. Migrazione o invasione? Sarà probabilmente soltanto il futuro che ci consentirà di dare adeguata risposta al quesito.

Al di là di tutte le leggende, di tutte le speranze, di tutta la complessa infrastruttura letteraria – e non solo! – che gli è stata costruita intorno, il Mediterraneo non è quindi affatto «un mare mamma», non lo è mai stato completamente. Nemmeno in quel lontano periodo in cui potevamo permetterci di definirlo Mare nostrum. È invece, questo sì, uno di quei nodi storico-politico-geografici in cui si manifestano in anticipo, iniziando a scontrarsi fra loro, tutte le tendenze e le tensioni che domineranno la scena umana, o perlomeno quella dell’area, per i decenni successivi.

In questo senso il Mediterraneo appare come un vero e proprio laboratorio, una fucina che fonde il passato per adeguarlo al presente e nel contempo iniziare a estrarre il futuro dal magma che ribolle. Interessante? Certo, purché si riesca a seguire l’esperimento che porterà alla nascita di un nuovo paradigma e alla sparizione dell’antico con una visione limpida, guidata soltanto dalla ragione e priva di tutte quelle storture che, come diceva Tucidide, sentimenti e caso possono introdurre nelle cose umane.

Un compito certamente difficile. Ma non impossibile, sempre che si riesca ad avere sempre chiaro a chi appartenga il Mediterraneo.

Mare nostrum per noi italiani il Mediterraneo lo è ancora, almeno in parte. Se non altro per il modo in cui l’intera Unione Europea cerca di giocare il minimo ruolo possibile nella gestione delle rotte dei disperati che provengono da sud, lasciandone a noi pressoché interamente la responsabilità e gli oneri.

Un gioco forse comprensibile allorché è condotto da paesi nordici, come gli scandinavi e i baltici, che hanno altri problemi di cui curarsi e un interesse molto attenuato dalla distanza geografica. È invece incomprensibile, se non suicida, nel momento in cui caratterizza i nostri vicini del Sud, come Spagna, Portogallo, Grecia. E soprattutto quella Francia che non riesce ancora a comprendere come geografia e storia non possano essere impunemente violentate e come un paese che è meridionale, mediterraneo e latino almeno sino alla Loira non possa perennemente fingere di appartenere all’Europa centrale nella sua ansia di riagganciare la Germania.

All’assurdo si è aggiunta negli ultimi tempi anche la beffa, quella delle ong battenti le più disparate bandiere che si danno buona coscienza con poca spesa soccorrendo i disperati – con procedure e con l’azione di persone per alcuni aspetti tanto al limite della legalità e della connivenza con le organizzazioni criminali da aver suscitato l’interesse dei nostri procuratori della Repubblica – scaricandoli poi il più presto possibile in territorio italiano. Un comportamento che trova la sua giustificazione ufficiale nel fatto che la nostra è la terraferma più vicina, a esclusione ovviamente di Malta che da tempo ha chiarito come non intenda essere assolutamente coinvolta.

Si tratta di un modo semplice ed economico di far del bene pagando con le tasche altrui. A fronte dell’onere del trasporto, sostenuto dalle ong e relativamente limitato, c’è da considerare infatti come rimanga interamente a carico del nostro paese il mantenimento di nuovi residenti che probabilmente non se ne andranno più, bloccati come sono dai vincoli impostici dal trattato di Dublino, dalla chiusura delle frontiere conseguente alla momentanea sospensione di Schengen e della cattiva volontà dei nostri partner europei in merito a qualsiasi ipotesi di più equa ridistribuzione dei migranti.

L’Italia comunque non protesta, per lo meno non abbastanza, e soprattutto si guarda bene dal prendere posizioni dure. Un poco per l’inveterata abitudine di un paese che non ha mai avuto la rivoluzione nelle sue corde; un poco per la tendenza della politica e della diplomazia italiane a cercare di smussare tutti gli spigoli vivi evitando di prendere di petto problemi che potrebbero rivelarsi spinosi; molto infine per il fatto che per noi è impossibile procedere in una direzione allorché altre forze, ben maggiori di quella che noi potremmo esercitare, spingono in direzione opposta.

Cosa unica al mondo, sul nostro territorio convivono infatti una media e una grande potenza, vale a dire l’Italia e il Vaticano. La simbiosi adesso si è un pochino attenuata, ma nel tempo è stata tale che sino a tre papi fa non si poteva pensare a un pontefice che non fosse italiano. Inoltre, la vita politica italiana è stata dominata per decenni da un partito confessionale, la Democrazia cristiana, fondato nel primo dopoguerra da un prete perché i buoni cattolici nazionali potessero esercitare tutto il loro peso politico nella vita del paese.

In simili condizioni l’Italia non è obbligata ad allinearsi pedissequamente alla politica vaticana o a prendere ordini da Oltre Tevere ogni volta che c’è in discussione un argomento importante. Di sicuro, però, essa non potrà assumere posizioni assolutamente antitetiche a quelle della Chiesa cattolica, a meno di non essere supportata con certezza dalla stragrande maggioranza dei cittadini, come avvenne per i referendum su divorzio e aborto. In tutte le altre occasioni l’Italia dovrà invece allinearsi o al limite cercare un compromesso, magari augurandosi che col tempo le mutate condizioni le consentano un grado di autonomia maggiore.

È quanto succede ora con l’immigrazione, che la Chiesa favorisce incondizionatamente perché fornisce al misero una speranza di riscatto, perché il Sacro collegio dei cardinali è composto in maggioranza da alti prelati provenienti da quello che un tempo era chiamato Terzo Mondo, e infine perché il Santo Padre stesso è nato in una famiglia di migranti e conosce quindi molto bene le dinamiche del fenomeno, nonché le difficoltà e le sofferenze ad esso connesse.

Nella visione della Chiesa l’Italia è divenuta in tal modo un vero e proprio ponte che si protende dall’Europa verso l’Africa del Nord e in cui l’ultima arcata, liquida anziché solida, è costituita dal Mediterraneo. Si capisce quindi come a questo punto risulterebbe difficile, se non impossibile, far passare misure dirette a inaridire progressivamente il flusso dei disperati in marcia verso le nostre sponde. Già quel poco che si tenta di fare per imporre una disciplina tale da consentire l’osservanza dei trattati internazionali e della legge nazionale viene contrastato con una virulenza e a volte un’acredine tali da dare la precisa misura di cosa potrebbe succedere qualora si provasse a intervenire con misure più serie.

Almeno dal punto di vista delle migrazioni, il Mediterraneo non è quindi affatto il Mare nostrum di un tempo. In un senso, da sud verso nord, esso è infatti appannaggio dei nuovi trafficanti di schiavi, cui la presenza delle navi delle ong e la possibilità di trasbordare i migranti senza sequestri evita di perdere gommoni e scafisti a ogni viaggio. Nell’altra direzione, da nord verso sud, esso invece si impone come parte del ponte ideale del Vaticano, destinato ad aprire ai poveri dell’Africa le ricchezze dell’Europa. E del resto «pontefice» non significa forse costruttore di ponti?

Si tratta però di una situazione che non potrà durare a tempo indefinito.

Essa riduce infatti il nostro ruolo nazionale a quello di puri soggetti passivi di un fenomeno gestito da altri, confinando oltretutto la funzione svolta con grande spesa dalla nostra Marina militare a quella di controllore di un traffico su cui sostanzialmente essa non può intervenire se non per motivi di soccorso… e guai se qualche volta non lo fa in maniera sufficientemente sollecita! Le limitazioni imposte dall’esterno, o che siamo stati costretti ad autoimporci, sono inoltre tali che la Marina non può nemmeno fermare le navi, ben conosciute peraltro, che trasportano i gommoni nuovi destinati ai fabbricanti. Né tantomeno intervenire in acque territoriali libiche o sulla terraferma per timore di violare la sovranità di due, forse tre, governi libici che del resto non hanno né la volontà né i mezzi per far rispettare tale sovranità.

Allo stesso tempo, il ritmo della migrazione sta accelerando al punto da rendere intollerabile ciò che con flussi meno concentrati e politiche più accorte avrebbe forse potuto continuare senza reazioni ancora per lungo tempo.

La presenza di tanti immigrati, tra l’altro molto difficilmente integrabili per colore della pelle e per differenze religiose, quando non per entrambe le cose, sta così incidendo sui sentimenti di una maggioranza di italiani che magari all’inizio si erano sentiti compartecipi del fenomeno, ma che oggi iniziano a recepirlo con fastidio e con un briciolo di paura e che domani potrebbero rifiutarlo seccamente. Cosa molto facile da verificarsi considerata l’anzianità della popolazione italiana e come persone di età elevata odino di solito i cambiamenti che sconvolgono una routine faticosamente conquistata.

Come in tutti gli avvenimenti umani che offrono un’alternativa, anche qui abbiamo ai due estremidue minoranze attive, indottrinate e battagliere, mentre al centro vi è una maggioranza lenta nel cambiare opinione, motivata solo superficialmente e più sulla base del sentimento che della ragione, aliena dal prendere posizioni che comportino doversi schierare attivamente. Sino a quando essa non si discosterà dalle posizioni di estrema apertura ai migranti che ancora mostra, sebbene non più con l’ardore e la pienezza che la Chiesa pretenderebbe, il Mediterraneo continuerà ad essere l’arcata liquida del ponte fra due continenti. Poi… beh, bisognerà cercare un diverso equilibrio!

Se il Mediterraneo non è più nostrum, allora di chi è?

Nei secoli il Mediterraneo ha cambiato padrone parecchie volte finendo con l’essere dominato, da metà Ottocento in poi, da un triumvirato composto da due soci di maggioranza – la Francia prevalente nel bacino occidentale e l’Inghilterra in quello orientale – e da un socio di minoranza, l’Italia, che si faceva forte della sua centralità e dell’appartenenza a entrambi i bacini.

Ai margini del sistema rimanevano i russi – signori del Mar Nero ma del tutto privi di ancoraggi nei cosiddetti mari caldi – e i turchi, che controllavano il Bosforo, una delle tre porte di accesso. Troppo lontana e con interessi soprattutto oceanici la Germania, che pure dedicava alla sua Marina attenzioni tali da impensierire l’impero britannico. Quanto all’Austria-Ungheria, la sua presenza era rilevante solo in Adriatico, ove l’impero aveva i suoi porti.

La catastrofe delle due guerre mondiali cambiò radicalmente la situazione, ridimensionando uno dopo l’altro tutti i soci storici e consegnando l’intero bacino nelle mani degli Stati Uniti, che si imposero rapidamente come monopolisti. Non che le potenze europee sparissero completamente dalle acque mediterranee; le loro Marine però assunsero progressivamente la conformazione di elementi ausiliari della VI Flotta statunitense, perno del controllo che, da Napoli e da Gaeta, l’America esercitava su questo mare, sulla sua sicurezza e sui flussi di traffico che lo percorrevano.

Per qualche tempo l’Unione Sovietica tentò di mantenervi una presenza limitata ma significativa, avvalendosi anche della nazionalizzazione del Canale di Suez, ma gli eventi successivi la ridussero, agli inizi degli anni Settanta, a poter fruire unicamente delle facilitazioni portuali siriane.

L’assoluto predominio americano durò, totalmente indiscusso, più o meno sino al termine degli anni Duemila, allorché Barack Obama elaborò la sua nuova dottrina strategica mirante a risparmiare uomini e mezzi per il tramite di un progressivo ritiro associato a un’assunzione di responsabilità da parte delle medie potenze regionali, amiche o alleate dell’America.

I risultati furono fortemente deludenti, non soltanto nel Mediterraneo ma anche in tutta l’area che giunge sino al Golfo ed è indicata col termine di «Mediterraneo allargato». I disastri che hanno coinvolto Siria ed Iraq, la sanguinosa anarchia in cui è caduta la Libia, i problemi che ancora assillano l’Egitto, l’instabilità di buona parte dell’area saheliana sono tutti effetti di questo mal calcolato e intempestivo ritiro. Mal calcolato poiché è avvenuto alla vigilia delle primavere arabe, in un momento di grande instabilità; intempestivo perché l’unico eventuale candidato a prendere efficacemente il posto degli Stati Uniti, cioè l’Unione Europea, appariva paralizzata dall’incalzare di crisi diverse che si sovrapponevano l’una all’altra, nonché dalla sua connaturata incapacità di elaborare una politica estera comune.

Il vuoto di potere così creatosi ha iniziato ad attirare altri aspiranti che ritengono di poter contribuire a colmarlo. La Russia ha aumentato la presenza navale in Siria, corteggia l’Egitto e il governo libico di Tobruk, e ha effettuato nel 2015 in acque mediterranee manovre navali congiunte con la Cina. Quest’ultima, un tempo molto lontana, si è mostrata estremamente attiva: prima ha acquistato il porto del Pireo, dopo avere corteggiato invano quello di Taranto, ora sta puntando grosso sulla Belt and Road Initiative (Bri), che appare destinata a mutare radicalmente nel giro di un decennio il flusso di commercio fra l’Asia e il Mediterraneo.

Mare nostrum, quindi, ma di chi? Probabilmente, se le attuali tendenze continuano, un pochino di tutti, mentre la Ue resterà con in mano un pugno di mosche.

Mediterraneo come mare povero, ricco di olive, vino e pescato, ma povero di risorse minerarie, tant’è che sin dall’età della pietra quelle bisognava andarle a cercare altrove. Un primo mutamento in questa situazione lo aveva provocato Ardito Desio, geologo ed esploratore friulano solido come le rocce della Carnia che dedicò all’avventura un’intera vita, iniziata allorché l’Ottocento non era ancora concluso e terminata dopo l’inizio del terzo millennio. Quando morì, a 104 anni, Desio teneva ancora sul comodino il primo fiasco di quel petrolio che per primo era riuscito a individuare e ad estrarre in Libia, all’epoca il nostro «scatolone di sabbia», negli anni Trenta. Sulla sua scia, e con la guida delle dettagliate carte delle sue iniziali prospezioni geologiche, partì quell’avventura del petrolio e del gas in Nordafrica che coinvolse, in misura diversa, Libia, Algeria ed Egitto, attenuando notevolmente il monopolio di cui godevano in questo settore il Medio Oriente e le sette sorelle quasi integralmente anglosassoni.

Con gli anni, storia ed economia di questi paesi si intrecciarono inestricabilmente con quelle dell’Italia, soprattutto grazie all’attività dell’Eni. Non è un caso che proprio da una scoperta dell’Eni, quella del megagiacimento di gas Zohr in acque territoriali egiziane, essa cominci ad assumere anche un altro aspetto. I rinvenimenti del nostro Ente nazionale idrocarburi non sono infatti un avvenimento isolato, ma si configurano quale parte di un mutato quadro complessivo delineato nel corso degli anni più recenti dal reperimento di un altro enorme giacimento, Leviathan, al largo di Israele, e di un terzo giacimento, Afrodite, in acque cipriote. Si prospetta così uno scenario inedito: un’estesa area del Mediterraneo orientale sotto la quale si estenderebbe un enorme «lago di gas». Se poi si aggiungono a queste notizie le scoperte di idrocarburi avvenute in Italia, al largo di Gela e nella Valle d’Itria, e quelle operate nell’Adriatico in una zona a cavallo fra le acque italiane e quelle croate, ci si accorge di come la vera potenzialità estrattiva di questa parte del bacino sia in realtà per buona parte ancora da scoprire.

Da definire restano da un lato i precisi diritti di estrazione e sfruttamento, dall’altro la rete di gasdotti, oleodotti, raffinerie, rigassificatori e altre infrastrutture destinate a far pervenire il gas all’utenza. Un compito che sarà certamente condizionato da pressioni e ambizioni di tutti coloro che mirano a spartirsi la torta, riservando per se stessi la parte più sostanziosa. Già non vi è accordo fra Grecia, Turchia e Cipro per la divisione dei diritti di sfruttamento sulle zone ove gravita Afrodite, mentre i palestinesi contestano l’esclusività del diritto di Israele sul Leviathan.

Chi riuscirà dunque ad assumere il reale controllo di questa nuova risorsa che entra sul mercato e potrebbe contribuire considerevolmente a migliorare le condizioni di molti paesi interessati? Indubbiamente chi saprà posizionarsi meglio e con maggiore tempestività, con una politica dotata di visione strategica e con quella capacità di aggregare il consenso che soltanto la stabilità può dare.

Per quanto riguarda l’Italia, l’Eni si è sempre mosso molto bene nel settore, ma il problema questa volta è tanto grande da divenire appannaggio del governo, non di Eni. Anche qui, in ogni caso, un eventuale accordo maturato in ambito Ue potrebbe conferire quel peso di cui da soli non disponiamo, permettendoci di continuare a considerare almeno in parte il Mediterraneo come Mare nostrum anche dal unto di vista dell’energia.

Oltre ad essere nostrum, il Mediterraneo era un tempo l’ombelico, il centro, l’area gravitazionaledi tutto il mondo occidentale. Un privilegio perso con la scoperta dell’America, assieme a tutti i vantaggi che ne derivavano. La nuova centralità europea divenne allora una centralità atlantica, mentre la circumnavigazione dell’Africa operata con successo dai portoghesi sottraeva al Mediterraneo anche il monopolio dei commerci con l’Asia, di cui aveva sino ad allora goduto. I porti mediterranei decaddero di conseguenza, come decaddero tutti gli Stati che non avevano almeno un tratto di costa sull’Atlantico. Un dato di fatto su cui ben poco incise l’apertura del Canale di Suez, che pur facilitando i traffici non produsse effetti capaci di sottrarre il primato agli ancoraggi inglesi, olandesi, tedeschi, francesi.

Tre fatti nuovi rimettono però ora in discussione l’intero sistema.

Il primo consiste nel fatto che gli Stati Uniti, da ormai più di un decennio, hanno in comune con l’Asia più interessi di quelli condivisi con l’Europa. Con il pragmatismo di cui sono maestri, gli americani hanno di conseguenza adottato uno slogan – «l’èra dell’Atlantico è terminata, inizia l’èra del Pacifico» – che ben esprime dal loro punto di vista l’essenza della nuova situazione.

L’irruzione sulla scena internazionale del ciclone Trump ha inoltre evidenziato (secondo punto)come l’America possa essere, soprattutto sul piano economico, più un rivale che un alleato, e dal piano economico a quello geopolitico il passo è molto breve. Il suo continuo riferimento agli interessi, più che ai valori (l’unica cosa di rilievo che europei ed americani avessero realmente in comune), ha inoltre reso palese l’assurdità di cercare di tenere in piedi un legame chiaramente divenuto a senso unico. Sta così franando, con una velocità sino a ieri imprevedibile, tutta quella mistica del «rapporto transatlantico» che ci aveva sostenuti negli anni bui del confronto bipolare.

Infine, una Cina impegnata a mantenere il suo tasso di sviluppo e a estendere la propria aread’influenza geopolitica senza spaventare i suoi rivali ci offre ora per il futuro la sua iniziativa Bri, che potrebbe cambiare radicalmente il mondo se dovesse rivelarsi un successo.

A tale iniziativa noi italiani, punto di arrivo di un fascio di flussi marittimi che dall’Estremo Orientedovrebbe raggiungere Venezia nel nome di Marco Polo e nel comune ricordo di un passato condiviso, siamo particolarmente interessati. Il mutamento potrebbe infatti ridare al Mediterraneo e ai suoi porti la centralità perduta, o almeno parte di essa. Se l’ipotesi si realizzasse, i guadagni sarebbero enormi. Ovvio però che alla dimensione di tali guadagni corrisponde la ciclopica entità delle sfide da superare e dei sacrifici da affrontare, almeno in un primo periodo e sinché il funzionamento delle nuove vie della seta non entrerà a regime.

Siamo pronti a tali sfide, che potrebbero almeno in parte riportarci a considerare il Mediterraneocome un mare nostro?


* Articolo parte del numero di Limes di 06/2017 “Mediterranei” e pubblicato su limesonline.com in data 30/06/17. Qui riportato integralmente su gentile concessione dell’autore.