Dopo Brexit dove va l’ Unione Europea?

di Roberto Nigido

E’ inevitabile partire dall’ analisi delle ragioni della vittoria del “leave“ nel referendum in Gran Bretagna sulla appartenenza all’ Unione Europea. I pareri dei commentatori sono divisi. Secondo alcuni, questo risultato è la conseguenza della inefficacia dimostrata dalle istituzioni europee nell’ affrontare le crisi in atto da tempo in materia economica e di immigrazione e della conseguente insoddisfazione dell’opinione pubblica. Secondo altri (chi scrive appartiene a questa categoria) gli inglesi hanno piuttosto dato sfogo, potendolo fare nel referendum, al loro connaturato sentimento di estraneità rispetto al processo di integrazione: sentimento rafforzato dai deludenti risultati conseguiti dall’ Unione, anche se questi risultati non hanno riguardato la Gran Bretagna, che è fuori dall’EURO e dalle sue regole e che non fa parte di Schengen.  Spetta ovviamente agli inglesi decidere del loro destino. Quello che importa é che ora vengano tempestivamente chiariti i tempi della domanda di recesso, le modalità del negoziato e la portata dell’accordo di recesso.

Vi è larga concordanza di vedute invece – tra i commentatori che non sono portatori di interessi di parte – nel ritenere che gli effetti economici dell’uscita della Gran Bretagna dall’ Unione non sarebbero catastrofici per Londra, salvo nel caso che innescassero un processo di secessione della Scozia e dell’Irlanda del Nord, e che comunque gli effetti economici sarebbero poco significativi per l’Unione. Dovrebbe considerarsi infatti scontata, in caso di recesso, la salvaguardia del mercato interno mediante un accordo ad hoc; accordo che è nell’ interesse sia della Gran Bretagna che dei 27. Ma è essenziale evitare incertezze e ritardi nelle decisioni da adottare. Il danno derivante all’ Unione Europea dalla perdita del Regno Unito sarebbe soprattutto di immagine. Mentre l’assenza di un partner scomodo e recalcitrante come il Regno Unito potrebbe rendere meno difficoltosi i processi decisionali dell’Unione; anche se, come si dirà più avanti, le vere difficoltà per l’avanzamento dell’integrazione europea provengono da altre parti.

Prescindendo dalla Gran Bretagna, la crescente disaffezione verso l’ Unione Europea espressa da molti  cittadini dei Paesi membri delle aree EURO e  Schengen va comunque riferita alla incapacità delle istituzioni europee di affrontare adeguatamente  la crisi economica esplosa a seguito di quella finanziaria degli anni 2007-2008 e di controllare in modo selettivo l’ immigrazione proveniente da un  Medio Oriente in preda al caos e da un’ Africa che rimane incapace di offrire prospettive di vita decenti ai suoi abitanti. Sotto il primo aspetto, Bruxelles ha imposto il rispetto rigoroso a livello nazionale delle regole di bilancio decise a livello europeo, ma non ha voluto accompagnare la disciplina finanziaria con politiche europee volte a stimolare la crescita; così ché il pur necessario rigore di bilancio imposto a Stati, che avevano dilapidato in passato le proprie finanze, è stato risentito come un fattore aggravante e punitivo da quelle opinioni pubbliche. Sotto il secondo aspetto, il Consiglio Europeo è stato incapace di dar seguito operativo alle proposte che pure la Commissione aveva presentato tempestivamente. Non intendiamo entrare qui nell’ annoso dibattito su “metodo comunitario verso metodo intergovernativo“: dibattito che è certamente stimolante ma impossibile da affrontare in questo breve scritto.

Il referendum in Gran Bretagna potrebbe offrire l’occasione all’ Europa per invertire la rotta e rilanciare il progetto dell’“unione sempre più stretta”, mettendo urgentemente in atto politiche capaci di dare ai cittadini sicurezza sul piano economico e sociale all’ interno delle frontiere comuni dell’Unione e di evitare il ritorno a chiusure nazionalistiche. Le ricette e gli strumenti per realizzare questi obiettivi sono noti: sono scritti nei Trattati, nei rapporti presentati negli ultimi anni al Consiglio Europeo dai Presidenti delle Istituzioni e nelle proposte presentate dagli Stati Membri, singolarmente o collettivamente, Italia compresa. Insomma non occorre inventare nulla. Se si rivelerà impossibile, come è probabile, procedere a 27, si potrà ricorrere intanto alle cooperazioni rafforzate e ad accordi intergovernativi (come Schengen e il Fiscal Compact). Solo successivamente si potrà pensare a nuovi assetti istituzionali, che prevedano eventualmente un’Unione a centri concentrici.

Nell’ immediato è essenziale che l’Europa ricominci a crescere, grazie all’ auspicato completamento dell’unione economica e monetaria, alle riforme strutturali da tempo raccomandate dalle istituzioni europee, a una interpretazione intelligente del rigore fiscale e soprattutto a investimenti pubblici europei e nazionali in settori strategici (infrastrutture, reti, educazione, ricerca scientifica ). Gli investimenti sono capaci di ripagarsi da soli: ogni investimento pari a 1% del PIL genera un aumento del prodotto interno lordo dell’1.5%. La politica monetaria espansiva messa in atto dalla BCE non basta per innescare la crescita, come ha ricordato a più riprese Mario Draghi. A fronte di una moneta solida e forte, siamo in presenza di una grave anomalia economica. Il mondo cresce del 4% circa; l’Europa dell’1,5%; la Germania circa dell’1,5%; l’Italia di meno dell’1%. Il problema della debole crescita europea non è la scarsa produttività (tranne che per l’Italia), ma di domanda globale. Questo problema fa capo alla Germania che, pur disponendo dell’economia più competitiva al mondo, deprime la domanda interna e mantiene, da anni, un surplus gigantesco della bilancia delle partite correnti (8% del PIL); regala così ingenti risorse nazionali al resto del mondo, nei cui confronti è creditrice per il 50% del proprio PIL.

Perché? È il riflesso della propensione al risparmio dei tedeschi, della loro paura per possibili ristrettezze economiche future, della loro storica ricerca di spazi fuori delle proprie frontiere meno ingrati del povero suolo tedesco? O la conseguenza di una politica deliberata della Germania, che vuole stravincere la partita della competitività e, grazie anche alle regole fiscali restrittive imposte agli altri Paesi, dominare il resto dell’Europa? Potrebbe trattarsi di elementi non alternativi, ma che si sommano. L’ Enigma Germania permane.

In conclusione, per chiedere alle Istituzioni europee di invertire la rotta e riavviare crescita e coesione sociale, occorre innanzitutto domandare alla Germania quale ruolo intende svolgere. È una domanda che l’Italia avrebbe il diritto di farle; così come avrebbe il diritto di contestare la reticenza tedesca a completare l’unione economica e monetaria, ricordando che Berlino si è dichiarata, almeno in passato, favorevole all’ unione politica. Ma, per affrontare i tedeschi, abbiamo il dovere di mettere la nostra casa in ordine. È fin troppo noto dove sta il disordine: inefficienza della giustizia, cattiva qualità del sistema giuridico e amministrativo, corruzione, finanza pubblica squilibrata, carenza di infrastrutture fisiche e giuridiche, assenza di concorrenza, scarso dinamismo imprenditoriale, insufficienza della ricerca scientifica e dei relativi meccanismi di trasmissione alle imprese. Questi elementi spiegano anche la perdita di competitività delle nostre produzioni in un mondo ormai globalizzato: vanno affrontati con urgenza e con un più compiuto senso morale.

Per cercare di spiegare le ragioni della crisi di identità dell’Unione Europea é utile anche soffermarsi sugli effetti della globalizzazione e della esplosione della finanzia scollegata dalle attività produttrici di beni e servizi. Questi fenomeni, e gli squilibri e le disuguaglianze che ne sono conseguiti, sono risentiti dalle opinioni pubbliche come responsabilità delle istituzioni europee, che non hanno saputo governarli. L’ accusa non è del tutto infondata. È opportuno ricordare che l’apertura generalizzata dei mercati operata a partire dagli anni ’80 del secolo scorso e le conseguenti delocalizzazioni sono stati gli strumenti attraverso cui le imprese occidentali, soprattutto multinazionali, hanno aggirato le sempre più pervasive e severe norme in materia sociale e di protezione ambientale che erano state nel frattempo introdotte (nei Paesi occidentali). Le istituzioni europee e i governi che vi erano rappresentati non hanno saputo (o voluto) prevedere le conseguenze sul piano sociale e dell’impiego di quanto si intendeva mettere in atto nel commercio mondiale e adottare tempestivamente le misure necessarie per evitare che l’apertura dei mercati senza regole adeguate avesse effetti distruttivi sulla capacità produttiva delle imprese manifatturiere del nostro continente. Gli europei si sentono così divisi tra i pochi che hanno beneficiato della globalizzazione e del dilagare delle attività finanziarie e i molti che ne sono stati svantaggiati. Va riconosciuto peraltro che apertura dei mercati e finanziariarizzazione hanno avuto effetti globalmente positivi: questi fenomeni non vanno pertanto demonizzati ma governati. Per quanto riguarda la finanza, essa va posta nuovamente al servizio dell’economia reale; ma si tratta di realizzare una vera rivoluzione culturale.


*Ambasciatore d’Italia  – Socio Onorario e Membro del Consiglio Direttivo TAB