Brexit: alcune considerazioni

di Francesco Verderame

1.La prima osservazione che vorrei fare riguarda la Brexit non tanto come episodio in sé, quanto come spia della evoluzione in atto nelle nostre società verso una lettura sempre più semplificata della realtà. Attraverso questa lente può essere letto non solo il risultato del referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea, ma anche tutti i principali sviluppi politici che si stanno svolgendo in molti paesi europei. In altri termini, nella vita politica e culturale dei nostri paesi si sta perdendo la consapevolezza della complessità del reale. E la vittima di questo processo è proprio chi ne viene additato strumentalmente come il protagonista principale, e cioè il popolo. Si fa sempre più spesso appello al popolo come decisore ultimo e definitivo, ma nei fatti lo si condiziona pesantemente attraverso una presentazione semplificata della realtà, amplificata dall’uso spregiudicato dei nuovi mezzi di informazione di massa. Il nesso ineludibile fra scelta e conoscenza si va sempre più allentando, e le conseguenze si vedono. C’è solo da sperare che lo scarto incommensurabile fra questo atteggiamento e le conseguenze che produce, di cui gli inglesi già stanno cominciando a rendersi conto (un tempo si sarebbe parlato delle “dure repliche della storia”), riporti tutti ad un maggior senso di responsabilità nella lettura della realtà che ci circonda.

2.Immediatamente dopo che sono stati resi noti i risultati del referendum britannico si è intensificata la caccia al colpevole della disaffezione dei cittadini europei verso il processo di integrazione che quel risultato sembra confermare. Come spesso avviene, la responsabilità viene ricercata in qualcosa di impalpabile. In questo caso l’Europa. Ma cosa è l’Europa se non quello che i leader dei paesi europei hanno voluto che fosse? Chi è responsabile della sindrome da invasione che si è diffusa nei nostri paesi e che, agitata ancora una volta strumentalmente, ha pesantemente condizionato l’esito del referendum britannico? Chi ha finora impedito qualunque tentativo di ridistribuzione dei migranti a livello europeo, rendendo ingestibile il fenomeno da parte degli stati di prima linea e suscitando le reazioni delle popolazioni coinvolte? Chi ha imposto sinora una lettura grettamente ragionieristica dei criteri di Maastricht? Chi è responsabile del clima di sfiducia che grava sulle prospettive di completamente dell’Unione Monetaria? A chi deve essere attribuita la responsabilità della paralisi di ogni prospettiva sovranazionale nella conduzione del processo di integrazione? C’è una profonda slealtà nelle accuse che alcuni leader europei rivolgono oggi alla Commissione ed al suo presidente. Se c’è un organismo, a parte la BCE, che per fortuna agisce in un quadro compiutamente federale, che ha dimostrato di saper interpretare politicamente l’Euro e le sue regole, quello è la Commissione, e non certamente il Consiglio Europeo. Ma la colpa di tutto viene addossata oggi a Junker, mentre i membri del Consiglio Europeo continuano caparbiamente a rivendicare la guida del processo.

Che fare oggi con gli inglesi? Purtroppo in questa fase sono loro a condurre il gioco. Non abbiamo alcuna possibilità di intervenire sulla procedura attraverso la quale la Gran Bretagna dovrà trarre le conseguenze degli esiti del referendum. I tempi di presentazione della richiesta di uscire dall’Unione saranno quelli che le Istituzioni britanniche decideranno, e per quanto preoccupati noi si possa essere per la prospettiva che l’attuale situazione di sospensione si prolunghi ancora per qualche mese, non potremo fare altro che subirla. Esattamente il contrario di quanto sarebbe oggi necessario. In ogni caso, quando il negoziato sulle condizioni del recesso potrà partire (auspicabilmente presto) bisognerà condurlo con molta fermezza: se vorranno recuperare parte dei molti vantaggi che essi ricavavano dall’appartenenza al mercato interno, dovranno accettarne tutte le componenti, a partire dalla libertà di circolazione delle persone, non più appesantita dalle irresponsabili concessioni che il Consiglio Europeo era pronto a fare loro purché rimanessero nell’Unione. E questo anche come profilassi per eventuali tentazioni analoghe da parte di altri paesi.

3. Ma soprattutto, che fare oggi dell’Europa? È ormai chiaro che l’attuale sistema non produce i risultati voluti con la rapidità necessaria. Oggi parlare di rilancio e di rinnovamento dell’Europa significa ancora una volta girare attorno al vero problema: nessuno dei fattori che hanno sin qui reso impossibile la condivisione dei flussi migratori, o che hanno alimentato la diversità di approccio alla maggior parte dei problemi che si pongono all’azione comune sparirà per incanto dopo che la Gran Bretagna sarà uscita dall’Unione. E questo vale anche per la mistica dei Fondatori. Bisogna ormai ripensare il rapporto fra gli stati nazionali e la struttura sovranazionale, riducendo al massimo il peso dell’intergovernativo e accrescendo la partecipazione popolare all’azione delle istituzioni non mediata dai canali nazionali di rappresentanza.

4. Si riprende a parlare di unione politica, ed è questo uno degli effetti positivi del risultato del referendum inglese. Ma un’unione politica nella quale continuasse ad essere presente lo stesso tasso di intergovernatività che caratterizza la struttura attuale dell’Unione sarebbe una contraddizione in termini, che o si tradurrebbe nell’imposizione della volontà del più forte o sarebbe destinata ad essere bloccata, se non dai veti incrociati, certamente dalle resistenze e dalle ambiguità degli uni o degli altri. Quanti oggi, anche tra i “fondatori”, sono veramente consapevoli delle implicazioni istituzionali dell’unione politica e sono disposti ad uscire dal paradigma attuale per intraprendere un cammino in senso veramente federale? E quanti sono consapevoli della necessità di “disintossicare” le nostre società dal tasso di improvvisazione e di pressappochismo che sta rischiando di soffocarle? Le società complesse hanno bisogno di meccanismi di intermediazione capaci di mediare lo scontro fra gli interessi convergenti e, soprattutto, di recuperare un clima culturale che ci attrezzi a fare i conti con l’estrema complessità del reale.  Tutto il contrario della mistica della “narrazione” che sta prendendo sempre più piede anche da noi.