Brexit: hic sunt leones
Nell’edizione on-line, la testata britannica The Independent ha pubblicato un interessante contributo, prendendo spunto da una dichiarazione pubblicata questa mattina da Google. In tale comunicato si nota come – al progressivo delinearsi del vantaggio per il Leave – la domanda what happens if we leave the EU? abbia subito un incremento di inserimenti all’interno del motore di ricerca; incremento che avrebbe raggiunto un picco del 250 percento rispetto alle ricerche effettuate sulla medesima parola-chiave nei giorni scorsi. Si tratta di una domanda legittima non solo per i cittadini britannici, ma anche per tutti gli altri cittadini europei; generazioni diverse che hanno diversamente contribuito al progressivo sviluppo del progetto di una casa comune chiamata Europa.
Il quesito era semplice: “should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?”, le possibili risposte due: una negativa e una affermativa. La campagna elettorale a cui si è assistito in questi mesi è stata serrata e macchiata dalla tragica scomparsa della deputata laburista Jo Cox. Il dato elettorale da questa mattina è definitivo: i cittadini del Regno Unito si sono espressi per il “Leave” con un 51,9 percento dei suffragi (contro un 49,1 percento favorevoli al “Remain”). Ha vinto la cosiddetta Brexit, dunque. Quali scenari e prospettive si possono ora aprire? Non si tratta di una risposta semplice e una moltitudine di articoli, commenti e opinioni in queste ore si sono sommati all’altrettanta moltitudine accumulatasi nei mesi passati.
Partendo da un recente e significativo contributo dell’ambasciatore Roberto Nigido, pubblicato da Affari Internazionali a inizio giugno e ripubblicato sul presente sito, va premesso come Londra non sia mai stata eccessivamente soddisfatta dalla gestione del processo di integrazione europea. Per quanto lodevole e utile sia stata la sua partecipazione, con alti e bassi, è necessario contestualizzare tale approccio all’Europa con il ruolo che il Regno Unito ha giocato nella storia. Solo per avere il polso di alcuni momenti salienti, e non arretrare troppo nei secoli, si può pensare alle politiche di equilibrio nell’Europa post-napoleonica, al successivo “splendido isolamento” o alla più recente “relazione speciale” con gli Stati Uniti. Questo approccio “insulare”, ha caratterizzato tanto le negoziazioni diplomatiche nel corso del cinquantennale processo di integrazione europea[1], tanto la definizione di diverse clausole di “opting out” relativamente a diversi aspetti della partecipazione britannica all’integrazione europea. Si pensi, per esempio, a Schengen o all’Unione Monetaria Europea (UME) o alla definizione dell’istituto delle “cooperazioni rafforzate”.
Nonostante in questi mesi pre-elettorali si sia più volte ricordato il risultato del precedente referendum sul tema tenutosi nel 1975, le conseguenze della crisi economico-finanziaria del 2008 sull’architettura europea e la congiunta inerzia di istituzioni e personalità politiche europee, hanno enormemente contribuito al ritorno di un sentimento “insulare” in vaste fasce della popolazione britannica. Sentimento manifestatosi nei risultati odierni.
Allo stato attuale, prima che il Governo di Sua Maestà si muova nelle opportune sedi europee, la membership del Paese nell’Unione rimane in linea di principio immutata; anche se già al Consiglio europeo previsto per la giornata di sabato 25 la partecipazione inglese potrebbe essere l’ultima. Nonostante ciò, va evidenziato come gli effetti della decisione britannica non si siano fatti attendere a livello economico e, anche, di politica interna. Se da un lato la sterlina ha subito un marcato deprezzamento all’apertura dei mercati odierni (già largamente previsto) e la quotazione di beni e valute-rifugio è parallelamente salita, dall’altro le conseguenze interne sono state rilevanti. A partire dall’annuncio di dimissioni dell’attuale Primo ministro del Regno Unito David Cameron – che porteranno in autunno a nuove elezioni, seguito dalle dichiarazioni del Primo ministro scozzese Nicola Sturgeon – la quale “will also be communicating over this weekend with each EU member state to make clear that Scotland has voted to stay”. Si tratta, a titolo esemplificativo di primi segnali di una instabilità di breve-medio periodo per il Regno Unito alla quale è plausibile possa seguire una contrazione degli investimenti causata da una fuga “emotiva” di capitali verso l’esterno. A tal proposito emblematiche sono le ipotesi – poi formalmente smentite – di riposizionamento dell’indotto finanziario in sedi europee, oltre che ipotizzate complicazioni in tutti i settori della vita economica del Paese.
Tale situazione di volatilità e squilibrio potrebbe iniziare a dare segni di stabilizzazione e mutare con l’insediamento di un nuovo governo negli ultimi mesi dell’anno e con l’avvio di una definizione del quadro giuridico di uscita dall’Unione. A livello europeo, infatti, non si è fatto attendere il comunicato congiunto delle Istituzioni, le quali attendono con sollecitudine la notifica di recesso per dare il via alle procedure previste ex articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) ed evitare un lungo periodo di instabilità pericoloso per entrambe le parti. L’articolo in questione prevede la possibilità per uno Stato membro di recedere dall’Unione, dando a paese uscente e Unione Europea due anni (dalla notifica del recesso) per riflettere e negoziare il quadro giuridico ed economico a seguito dell’uscita dal progetto europeo[2]. Un precedente, questo, che potrebbe dare nuova linfa ai movimenti euroscettici e amplificare la loro voce. In Olanda e Francia, per esempio, movimenti di questo tipo si sono già mossi nel promettere proposte referendarie per uscire dall’Europa, in caso di loro futura vittoria nelle elezioni politiche prossime venture.
Tuttavia, nonostante queste prime tendenze, come ben notato dall’amb. Nigido nell’articolo pubblicato su Affari Internazionali i risvolti potrebbero non essere necessariamente negativi. Il progetto di una casa comune per i popoli d’Europa non è stato, non è, non sarà esente da momenti di crisi. Va ricordato che la cultura e la storia dell’Europa non sono le stesse degli Stati Uniti d’America – ai quali guardano i federalisti europei più ferventi. I diversi focolai di crisi che sta affrontando l’Europa di questi tempi ed eventuali shock, come il contingente processo di Brexit, possono essere un’occasione per confrontarsi crescere e rafforzarsi – in una “even closer Union” , anche passando per una “piccola Europa”. In fondo, il processo di integrazione continentale può assimilarsi a un processo di apprendimento “per tentativi ed errori”. Solo attraverso momenti di crisi, dunque, l’Europa potrà plasmarsi. Dopotutto, non è forse vero che le più importanti pietre miliari, nel processo di integrazione, sono state raggiunte attraverso la gestione e il superamento di momenti di crisi?
[1] Come nota l’amb. Nigido in un contributo del 2012, e ancora molto attuale, dal titolo “La Gran Bretagna e l’Europa: uno sguardo al passato pensando al futuro”.
[2] Un elemento da tenere in debita considerazione, a pochi mesi da una nuova tornata elettorale in Spagna, sono anche le rivendicazioni spagnole sul territorio britannico di Gibilterra – nel quale i residenti favorevoli a rimanere nell’Unione Europea hanno sfiorato il 96 percento.